La questione oggi sul tavolo tra Israele e Palestina è se il ritiro unilaterale da Gaza sia solo il primo passo o se invece rimarrà un episodio isolato: “Gaza first” o “Gaza only”. La prima opzione significa che dopo Gaza Israele affronterà finalmente l’annosa questione delle colonie nei territori occupati in Cisgiordania; scegliere la seconda, invece, vorrà dire inevitabilmente creare in Cisgiordania una serie di bantustan palestinesi senza continuità territoriale, facendo così naufragare la possibilità di costruire uno stato palestinese e con esso una pace duratura. Per cercare di dare una risposta a questa domanda cruciale, mentre molti osservatori e tifosi cercano di capire come finirà la partita dai movimenti dei giocatori attualmente in campo, pochi altri guardano invece a cosa succede in panchina, interrogandosi su una questione apparentemente di dettaglio: il futuro status giuridico di Gaza. Ma dalla sua definizione si potranno capire molte cose.
Dopo il ritiro unilaterale da parte di Israele, Gaza può essere ancora considerata “territorio occupato”? Il governo israeliano ora è categorico: con il ritiro di ogni presenza militare, lo status giuridico non può più essere quello. L’Olp è di avviso opposto: Israele rimane “potenza occupante” perché “controlla ancora i confini di Gaza, marini e terrestri, fornisce elettricità e acqua, e si riserva il diritto di usare la forza (come è già successo sabato 24 settembre, ndr) sia preventiva sia reattiva contro attacchi da Gaza”.
Secondo la convenzione dell’Aja del 1907, affinché un territorio sia definibile come “occupato” vi deve essere l’effettivo controllo militare di una potenza straniera; a questa fonte principale del diritto internazionale in materia, tradizionalmente si affianca poi la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, richiamata dall’Olp, che entra nello specifico delle responsabilità – facendo obbligo alla potenza occupante di fornire i servizi fondamentali per la popolazione occupata, come acqua ed elettricità, e di non permettere l’insediamento di propri cittadini nel territorio occupato – e prevede anche la possibilità che “l’intensità dell’occupazione” possa variare.
Insomma, il diritto internazionale è di fronte a qualcosa che non aveva previsto: un posto né totalmente sottoposto a occupazione né completamente sovrano. Tipicamente una situazione nella quale si esalta il ruolo della politica. Ma è l’altro argomento usato dall’Olp (non da Hamas, che rivendica come propria vittoria il ritiro e non riconosce gli accordi di Oslo) che traduce una questione di diritto internazionale in questione politica: secondo gli accordi di Oslo del 1993, Gaza e Cisgiordania sono considerati come un tutt’uno. Dunque devono avere lo stesso status. Non a caso Sharon è stato insultato come “l’Herzl dei palestinesi” dai suoi oppositori interni al Likud, contrari al ritiro e alle sue implicazioni. Nel partito si è aperta così una fase di contestazione al premier guidata dall’ex ministro delle finanze Netanyahu che potrebbe sfociare questo fine settimana nell’accettazione da parte del comitato centrale della sua richiesta di anticipare le primarie per l’indicazione del nuovo candidato premier.
Se lunedì sera dovesse vincere Netanyahu, Sharon è probabilmente pronto a fondare un nuovo partito più centrista, facendo definitivamente deflagrare il Likud: potrebbe avere al suo fianco l’ex capo dello Shin Bet Avi Dichter, il “tagliatore di teste” della seconda intifada. Una coppia dotata di tutte le credenziali per resistere a destra e guardare al centro, anche se nella politica israeliana ogni tentativo di muoversi verso il centro fondando un nuovo partito e lasciando il vecchio si è sempre risolto in un fallimento (Ben Gurion docet). Ma oggi tutti fanno i conti con un ritiro da Gaza che sempre più sta diventando un evento periodizzante per la storia d’Israele e della Palestina. E che può dunque mettere in moto anche altri processi politici. Per esempio ha già permesso a Pakistan e Israele di far uscire allo scoperto le loro relazioni bilaterali, con la recente stretta di mano tra Sharon e Musharraf che spinge Israele verso l’Asia e lontano dall’Europa: un fatto temuto dai suoi nemici, che non potrebbero poi più concettualizzarlo come “estraneo al contesto”. In più, Re Abdallah di Giordania ha potuto annunciare la sua prima visita in Israele, e il Bahrain ha affermato di non voler più rispettare l’embargo contro Israele. Ma in definitiva tutto dipende da se e come verrà risolta la questione palestinese. Per questo lo status di Gaza può essere rivelatore. Se Israele avrà la forza di assumersi le sue responsabilità anche verso il passato e di guardare così al futuro, non occulterà il legame tra Gaza e Cisgiordania. Se invece se ne laverà le mani, ciò significherà che da un “Gaza first” si andrà verso un “Gaza only”. Forse per molto tempo. Sharon alla fine si ritirerà nel suo ranch nel Negev. E il mini territorio di Gaza più che a uno stato islamico integralista in definitiva assomiglierà a Medellin, ma distante solo qualche chilometro da Tel Aviv (al 22 settembre 2005 sono morti in Iraq 1910 soldati Usa).