Non un’idea brillante, suicidarsi la notte di Capodanno. Piuttosto originale, se devi scriverci un libro; meno se di quel libro sei invece il protagonista e ti trovi a dividere la scena – nello specifico, il tetto della Topper’s House, centro di raccolta londinese per aspiranti suicidi – con altri tre personaggi nelle medesime condizioni. Ovviamente disperate. Il libro è Non buttiamoci giù (Guanda), i personaggi sono le creature moderne e loquaci di Nick Hornby, la disperazione è tanto autentica da non aver bisogno di parole pesanti.
Il primo a salire è Martin, una specie di Massimo Giletti espulso dal Mulino Bianco. Brillante carriera nella tv del mattino, un matrimonio perfetto, due bambine senz’altro bionde. A seguire, notti disastrose in prima pagina su tutti i tabloid del regno e, soprattutto, l’avventura con Danielle, rivelatasi illegalmente quindicenne. Abbastanza per finire in prigione e totalizzare un punteggio di ventuno su trenta nella “Aaron T. Beck’s Suicide Intent Scale”. Anche i problemi di Maureen sono abbastanza concreti: carne della sua carne, sangue del suo sangue. Lasciata da sola a crescere un figlio gravemente disabile, del mondo reale conosce soltanto la funzione della domenica e il numero di telefono del centro di assistenza che prenderà in custodia il ragazzo mentre lei partecipa al Veglione Definitivo. Quando trova il cornicione occupato, ordinatamente si mette in fila. Con tutt’altro stile irrompe Jess, una che certi genitori – tra cui i suoi, altolocati – liquiderebbero come “un’adolescente difficile”. Il che, notoriamente, non significa niente. A sentirla sacramentare è una ragazzina come molte, sul tetto della Topper’s House perché il mascalzone di turno l’ha mollata senza avvertire. Come spesso accade con le ragazzine, la realtà è un po’ più complicata di così. Infatti è lei, piccola e frivola, che è necessario bloccare a viva forza per evitare che davvero si butti giù. A questo punto qualcuno, qualche piano più in basso, deve avere ordinato una pizza. L’incaricato della consegna è un musicista americano, a Londra per amore, appesantito da un promettente avvenire dietro le spalle. Si fa chiamare JJ e – bizzarra coincidenza – non ha nessuna voglia di vedere l’alba del nuovo anno. Piantato contemporaneamente dalla fidanzata e dalla band con cui è cresciuto sognando di vincere un Grammy, è inadeguato persino alla sua stessa depressione: a giustificazione si inventa vittima di un male incurabile e gli altri, retrocessi immediatamente al ruolo di tre idioti, decidono di concedersi almeno il tempo di una pizza. Togliersi la vita è affare per anime sole, quattro è una compagnia: la decisione, per il momento, è rimandata.
Lungo le scale della Topper’s House, i personaggi stringono un patto. Non è il suicidio, infatti, che li tiene uniti da qui fino alla fine del racconto. È la discesa. A long way down, come da titolo originale. Non hanno niente in comune, non si trovano neanche troppo simpatici. Parlano, alcuni in continuazione, ognuno soltanto di se stesso. Parlano ognuno con la propria voce, in un’alternanza di registri che restituisce con leggerezza il dramma individuale e solo ogni tanto scivola nella maniera. Si scambiano le battute tipiche di Hornby: brillanti e irriverenti, piene – fin troppo – di riferimenti a oggetti e canzoni, dettagli precisi di mondo. Costretti ai margini delle rispettive confraternite, sono così abituati a sentirsi addosso la riprovazione di chi conduce vite socialmente presentabili da trovare confortante una comitiva di disadattati. Perché insieme sono finalmente legittimati a pensar male. In mancanza d’altro, gli uni degli altri.