Rolling bigger

Detta fuori dal coro: A Bigger Bang non è un buon album dei Rolling Stones perché teniamo conto dell’età. Non è un buon album in rapporto agli ultimi lavori. No, A Bigger Bang è dritto filato un album dannatamente buono dei Rolling Stones, senza necessità alcuna di referenze o scuse particolari, per la prima volta da anni”.
Chi meglio di Rolling Stone per una parola definitiva sull’ultima fatica della “più grande rock’n’roll band del mondo”? Da fieri detentori del titolo, Jagger, Richard & Associati sanno che ogni loro nota, comunque suonata, genera tonnellate di analisi e critiche equamente ripartite tra entusiastiche ovazioni (che nascondono, a volte, il battito accelerato del fan) e liquidatorie stroncature (che nascondono, a volte, il battito nostalgico del fan). Non a caso, Rolling Stone chiama subito in causa il fattore età: il rock promette eterna giovinezza ma mantiene una dura vecchiaia, spesa – spesso, proprio a causa di quell’immagine o di quel mito che i media ti hanno cucito addosso – a cercare di mantenere il confronto con i se stessi di venti o trenta anni prima. Infatti, quasi a rispondere al magazine Usa, un principe della critica nostrana scrive: “Niente di drammatico: è la vecchiaia, bellezza; anche se i Rolling si battono con puntiglio (…) esponendo tutta l’argenteria di casa”. Diretto e brutale come un buon rock grezzo: non male, per qualcuno che condivide con la band il problema delle rughe. Eppure, indizio freudiano, anche il re-censore deve riconoscere che “i Rolling si battono con puntiglio”.
Affermazione che riporta all’inizio: questo è un album buono perché è un album buono. Tautologia per significare che non si avverte la necessità di datati e ovvi paragoni: se sia più nobile o meno di “Aftermath”, “Their Satanic Majesties Request” o “Exile On Main Street”; se contenga più cose tra cielo e terra di “Black And Blue”, “Steel Wheel” e “Voodoo Lounge”. Se un gruppo di dinosauri del rock (ce ne sono parecchi in attività, è il riferimento all’estinzione insito in quella frase che si va estinguendo) sceglie come titolo “A Bigger Bang”, quasi invitando a scoprire il bluff; se battezza un brano “Oh No, Not You Again” insinuando il riferimento personale; se sfoggia un blues grezzo ed appassionato come “Back Of My Hand” che riporta dritto agli anni ’60 chiudendo il cerchio – non viene il sospetto che ci si stia, semplicemente, divertendo? E cos’era il rock’n’roll, oltreché spartiacque generazionale, espressione di disagio, impegno, linguaggio trasversale e fenomenale mezzo per rimorchiare? Divertimento, già.
Non manca in questo lavoro l’accento sociale, con la dura requisitoria di “Sweet Neo Con” (nella quale non si spara, com’è ormai moda, solo sul bersaglio grosso Bush. Questa si applica a un numero più ampio di individui, non solo negli States), ma ciò che davvero fa piacere è che Jagger si diverte a rifare tutte le sue voci e smorfie e Richards sogghigna sinistro dietro la sua chitarra, qui davvero scintillante; se loro due stanno bene, il resto della compagnia segue in grande stile. “Rain Fall Down”, “Bigger Mistake”, “Look What The Cat Dragged In” restituiscono una band di nuovo in preda ai suoi umori e ai suoi amori; mentre altre band si battono per strappare loro la corona, i quattro ragazzi invecchiati se ne infischiano, facendo esattamente quello che più gli piace e meglio gli riesce. Se non i più grandi, a bigger band.