Fine del marketing politico?

La riforma della legge elettorale pone questioni di inquadramento teorico relative al tema della comunicazione politica. Il giudizio negativo verso la riforma proporzionale, rafforzato dall’indubbio valore maggioritario dei quattro milioni delle primarie, è da affrontare, a mio avviso, più nel merito che nel metodo. Non ritengo grave l’approvazione tardiva della legge, ma credo rischioso ritardare quel processo di nuova e più diretta partecipazione dei cittadini alla politica che il maggioritario aveva avviato, pur dimostrandosi incapace finora – nelle regole o negli interpreti? – di risolvere. Perché è stato un tentativo di cambiare il sistema partendo dalla testa, dicono alcuni, con la società assente. Eppure il ritorno al proporzionale appare un ulteriore rafforzamento di quella testa. Non solo in un meccanismo di autodifesa, ma di allargamento del gap con il paese.
Ma… c’è un ma. E risiede proprio in quei partiti e quei politici che partecipano a quella testa, nelle loro capacità di assumere in pieno il proprio ruolo di guida del paese e mediatore dei modi di starci dentro. Scopriremo se la scommessa che fanno su se stessi, con il ritorno al proporzionale, è vincente o perdente per il paese. Provo, per ora, a credere che sia vincente e propongo un ragionamento che parte dalla comunicazione per finire alla politica.
1. Il maggioritario ha provocato l’esplosione del marketing politico, per Berlusconi e la nuova cultura politica italiana e per le esigenze di micropersonalizzazione dei collegi.
2. Con la riforma proporzionale di fatto finisce la campagna elettorale dei candidati – non solo nei collegi ma per la prima volta anche per le preferenze. Un primato assoluto e nuovo di una campagna tutta di partito.
3. Il ritorno al proporzionale pone dunque fine alla breve epoca del marketing politico all’italiana e dà avvio alla (attesa, inizialmente lenta, si spera durevole) storia della comunicazione/politica permanente.
4. Non solo, però, il proporzionale, ma le liste bloccate. E non sorprende come e quanto Forza Italia le abbia volute.
5. Perché le preferenze (ri)portano alla campagna terra terra delle clientele e dei notabilati. Vince chi è più bravo a portare voti, non chi è più bravo. Bravo perché competente, capace non solo di raccogliere ma di seminare, costruire, cogliere nelle sfumature, interpretare. Le liste bloccate permettono scelte meritocratiche, legittimamente d’opinione, rappresentative e partecipative, in grado di arricchire e dinamizzare le strutture di partito, offrendo solidità intellettuale, competenze differenziate, innovazioni generazionali.
6. All’inizio sarà dura. La sfiducia per un sistema che si racconta – forse, speriamo, più di quanto in effetti non sia – autoreferenziale e miope si diffonde talvolta anche in noi che ci abbiamo sempre creduto ai partiti come casa, anche se non sono mai stati la nostra.
7. Ma se qualcuno prova a crederci, a credere che la politica non è, se non è comunicazione, si trova improvvisamente davanti spazi ampi e liberi, affrancati dal rumore delle campagne elettorali e pronti a trasformare peones in minileader.
8. Lo spazio infatti è quello di seconda linea, dietro grandi leader e segretari di partito.
9. Uno spazio per affermare un profilo di micro-leadership, costruendo un rapporto diretto con l’opinione pubblica, senza confini di territorio e di clientele, ma provando a rappresentare pezzi (in questo senso “micro” o “mini”) di identità popolare.
10. Uno spazio, dicevo, per minileader. Per chi è veicolo di informazione e di partecipazione. Di comunicazione.
11. La domanda, allora, è se c’è una generazione, dentro e fuori gli attuali partiti, che ambisce a essere davvero classe dirigente. E la condizione necessaria è che i partiti siano pronti a rinunciare almeno in parte alla propria statica autoconservazione. Se immaginiamo risposte positive si apre lo spazio per dare forma – almeno temporaneamente stabile – al modello di partito di cui il nostro sistema, dopo la fine delle ideologie che sottendevano i partiti di massa, è ancora orfano. Con categorie imprecise e imparziali, usate a scopo esplicativo e non teorico, si può pensare a partiti d’opinione che sappiano interpretare e strutturare nuove forme di radicamento, partecipativo, forse tematico, non ideologico ma duraturo, frammentato ma collegato in una visione progettuale, diffusa e reticolare, che diventi prospettiva condivisa.
12. Un partito d’opinione fatto da leader d’opinione. In un meccanismo a strati – comunicanti e in continua contaminazione – che renda la politica nuovamente scheletro mediatore della convivenza civica. Partiti e leader d’opinione protagonisti diffusi del rapporto tra cittadini e una politica che torni a essere parola di tutti.
13. Come nella domenica delle primarie, in cui previsioni e organizzazioni dei partiti sono state superate e stravolte da quattro inattesi milioni di persone, che si sono prese tutto (e di più) l’occasionale e parziale potere che veniva loro offerto.
14. E’ il nucleo della questione, il rapporto politica-cittadini, che deve trovare continuità ed efficacia. Ecco perché ho azzardato la risposta della comunicazione/politica permanente.
15. L’ipotesi è quella della trasposizione della politica nella comunicazione come chiave di lettura degli spazi che abitiamo. Quello per cui – mi si passi la semplificazione – sono nate le scienze politiche, cioè spiegare come stare al mondo nella concretezza in cui lo viviamo (non nei pensieri, nelle regole, nelle descrizioni, nelle storie) oggi ci è spiegato dalle scienze della comunicazione.
16. E’ la comunicazione che diventa politica (in una osmosi concettuale che abbiamo provato a rappresentare scrivendo comunicazione/politica). Ed è il paradosso della politica che non può fare a meno della comunicazione: non per comunicare, ma per essere se stessa.
17. Nota bene: a chi non l’avesse capito, precisiamo che non si è parlato di comunicazione come pacchetto occasionalmente disponibile di strumenti di informazione e contatto con gli elettori, ma comunicazione come cultura politica di relazione con i cittadini.
Ma diciassette porta davvero sfortuna? >