Questa settimana l’attenzione del mondo arabo è concentrata su due eventi: il rapporto della commissione Mehlis sull’assassinio di Hariri e il processo a Saddam Hussein. Ambedue gli avvenimenti sono attentamente seguiti dall’opinione pubblica araba perché, secondo le parole dell’autorevole quotidiano Al-Hayat, in Medio Oriente “è cominciata l’era nella quale la gente chiederà conto ai propri governanti di ciò che fanno”. Del primo fatto abbiamo già scritto il 2 ottobre. Del secondo scriviamo oggi, ma in realtà abbiamo cominciato a scriverne il 18 settembre, parlando della proposta di Costituzione che poi è stata sottoposta al voto referendario del 15 ottobre. Perché il processo costituzionale è in effetti un diverso aspetto della stessa questione al centro del processo a Saddam Hussein (che si è aperto il 19 ottobre, per poi aggiornarsi per “mancanza” di testimoni al 28 novembre): quale sarà il ruolo dei sunniti nel nuovo Iraq? Per quanto riguarda il processo costituzionale, anche se ufficialmente non ancora proclamati – perché ci sono percentuali di “sì” sospettosamente alte in alcune province – i risultati della tornata del 15 ottobre non depongono in questo senso: i sunniti sono andati a votare (la percentuale dei votanti è passata dal 58 per cento di gennaio al 64 di ottobre) e hanno votato “no” (a Falluja al 99 per cento), ma il fatto di aver tentato il 3 ottobre di alzare l’asticella necessaria per ridiscutere la bozza dai due terzi dei votanti ai due terzi degli aventi diritto, tentativo fallito tre giorni dopo, ha indebolito la volontà dei sempre più sospettosi sunniti di scegliere la protesta politica, soffiando così sul fuoco di quella militare. La parola federalismo diventa in questo modo sempre più sinonimo di petrolio, e i sunniti hanno meno incentivi a partecipare al processo democratico, a partire dalla partecipazione alle prossime elezioni legislative del 15 dicembre. Con ciò rischia di fallire la stabilizzazione irachena, sempre in bilico: da una parte, rispetto ai tempi di Saddam, cresce il Pil, c’è il 20 per cento in più di studenti, i telefoni sono passati da uno a cinque milioni e Internet si sta diffondendo; dall’altra, abbiamo la caduta della fiducia nel futuro dal 70 per cento del 2003 al 50 per cento di oggi. Non è strano: la media dei soldati stranieri uccisi rimane di 70 al mese, mentre quelli iracheni sono 60 alla settimana; settembre ha visto il più alto numero di autobomba di sempre, gli attacchi della guerriglia sono attestati sui 90 al giorno e gli attentati agli oleodotti 10 al mese. In questa situazione, il processo a Saddam può divenire la goccia che fa traboccare il vaso (o come dicono qui: la pagliuzza che spezza il dorso del cammello). Se non accortamente (e dunque politicamente) gestito, il processo può infatti rivelarsi il catalizzatore simbolico della rabbia dei sunniti, capace di unirli su basi regressive.
Sembra buona la scelta del 10 dicembre 2003 di costituire un “tribunale speciale iracheno”, cioè un tribunale fondato sul modello dei tribunali internazionali dell’Onu per ex Jugoslavia, Ruanda e Sierra Leone, dunque “internazionalizzato” ma non del tutto internazionale, perché posto a Baghdad e composto esclusivamente da iracheni. Pessima sembra invece la scelta di non tenere un singolo dibattimento complessivo come a Norimberga, ma una dozzina di mini-processi su casi specifici: il primo, quello iniziato il 19 ottobre, è relativo all’esecuzione nel 1982 di 143 civili a Dujail, città sciita a nord di Baghdad teatro di un fallito attentato alla vita del raìs; seguiranno il massacro con gas nervini di circa 5 mila curdi a Halabja nel 1988, l’uccisione o la deportazione di circa 10 mila membri della tribù curda Barzani negli anni ’80, l’invasione del Kuwait, e l’uccisione di centinaia di migliaia di “arabi delle paludi” per la loro sollevazione del 1991. Una scelta che non solo può accrescere la sensazione di essere perseguitati da parte dei sunniti, e anche incoraggiare le vendette di estremisti sciiti e curdi, ma che ha già fatto dire a un ex avvocato di Saddam quello che molti arabi pensano: non si vuole indagare neanche per sbaglio sulle eventuali corresponsabilità degli Usa quando appoggiavano Saddam, e in particolare non si vuole menzionare il ruolo avuto dall’attuale vicepresidente Usa Dick Cheney – non a caso sul punto di essere scaricato da Bush in favore della Rice – che come inviato speciale di Reagan incontrò Saddam due volte nel 1983-4 per portargli il sostegno Usa nella sua guerra con l’Iran. Altra questione: il 21 ottobre è stato rapito e poi ucciso uno degli avvocati difensori, che colpevolmente non godeva di particolari misure di sicurezza: il team legale potrebbe sfasciarsi sotto le minacce sciite, e Saddam, che è laureato in legge al Cairo, potrebbe insidiosamente scegliere di difendersi da solo, come sta facendo con successo politico Milosevic a L’Aja. Insomma, si tratta di un processo talmente politico che la forma diviene sostanza, e ogni dettaglio può far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Occorre dunque approntare una vera e propria strategia politica di conduzione del dibattimento, e nel frattempo ripensare – come molti analisti dicono da tempo – tutto il modello scelto dagli Usa per la transizione. Sempre Al-Hayat consigliava qualche settimana fa per la transizione e il processo a Saddam di abbandonare il modello della Germania dopo il 1945, per abbracciare invece quello sudafricano della riconciliazione nazionale. Suggerimento che alla Casa Bianca forse farebbero bene a meditare con attenzione (al 19 ottobre 2005 sono morti in Iraq 1987 soldati Usa).