Ciò che è pubblico non è per ciò stesso politico. Politica e sfera pubblica non coincidono. Un concerto rock si svolge in una dimensione pubblica, e in un luogo aperto al pubblico, ma non è per ciò stesso un evento politico. Capita però che questa distinzione, in sé elementare, sia appannata dal significato politico che un concerto, un programma televisivo o una sfilata di moda possono assumere. Cionondimeno, resta il fatto che non è su un palco, in uno studio di Saxa Rubra o su una passerella che si prendono decisioni politiche. Se, come pare, il momento politico vero e proprio è quello della decisione (e della decisione vincolante, e dell’azione conseguente), in che modo dovremo allora considerare il tracimare della politica fuori dai suoi spazi istituzionali, in tutta la sfera pubblica? La domanda suona forse troppo astratta o complessa, e allora la traduco in questi termini: che cosa significa politik nel titolo del programma di Adriano Celentano?
Che l’associazione di rock e politica non sia nuova è risaputo. Ma è risaputo anche che non è al giovedì, in prima serata, su Rai Uno, con l’orchestra e la valletta, che ci si può attendere la canzone di protesta e di denuncia, e qualcosa come Woodstock o Live Aid, Joan Baez o gli Inti Illimani. È probabile che gli autori del programma abbiano pensato, nell’apporre il titolo, al contenuto del programma, al suo impatto politico, e il fatto che l’intera settimana sia occupata da dichiarazioni di politici e commenti di giornalisti sulla comparsata di Santoro o la satira di Benigni dà loro pienamente ragione. Rockpolitik significa allora: trasmissione di intrattenimento musicale con contenuti politici. Ma Rockpolitik può significare anche, al contrario, che la politica si dà oggi come spettacolo di intrattenimento. Oggi, e non da oggi: anche questa è cosa risaputa¸ e non solo per merito del risotto di D’Alema o delle interviste di Silvio Berlusconi alla Domenica sportiva.
La distinzione che ponevamo però all’inizio non suggerisce solo di guardare al modo in cui la politica esonda nella sfera pubblica, ma anche di domandarsi che ne è di questa sfera pubblica così inondata. E a una simile domanda si può tentare di rispondere solo chiedendosi cos’era la sfera pubblica prima che la politica (ma non solo la politica) vi si riversasse sopra. In maniera per certi versi esemplare, cosa questa sfera sia stata per tutto il corso della modernità lo illustra la distinzione fra uso privato e uso pubblico della ragione in Kant – uso che peraltro non corrisponde ai nostri ordinari concetti di privato e di pubblico. Per Kant, è privato l’uso della ragione “in un certo ufficio o funzione civile in cui è investito”: in tale condizione, l’uso della ragione è subordinato allo svolgimento di una mansione; l’azione richiesta dall’istituzione della quale si fa parte limita l’esercizio critico della ragione. Kant fa l’esempio del militare, tenuto anzitutto a obbedire e poi eventualmente a discutere. Pubblico è invece l’uso che della ragione “uno fa, come studioso, dinanzi all’intero pubblico dei lettori”. Kant immagina dunque che vi sia uno spazio, quello della cultura, in cui agli studiosi non sia assegnata altra mansione che quella dell’esercizio libero della ragione. Questo spazio è peraltro essenziale, perché costituisce l’unico ambito in cui porre le domande sul senso dell’agire umano: in ogni altro ambito, questa domanda non ha ragione d’esser posta, visto che la motivazione circa l’agire discende dallo stesso sistema sociale del quale l’azione è parte. Proseguendo sul filo dell’esempio: il militare sa di dover obbedire, in quanto militare; l’eventuale domanda circa il senso dell’obbedienza lo sbalzerebbe immediatamente fuori dell’istituzione, nello spazio pubblico dell’etica e della cultura in generale.
Che dunque la politica si sovrapponga, del tutto o anche solo parzialmente, alla sfera pubblica significa che lo spazio dell’uso pubblico della ragione non c’è più, e che la politica non ha senso. Non ce l’ha, però, non per chissà quale maledizione nichilistica del nostro tempo, o perché la storia è finita, o ancora, più modestamente, per la scarsa statura intellettuale dei politici nostrani. Non ce l’ha perché non c’è più un luogo in cui possa levarsi nei termini universali suoi propri, e cioè non compromessa dagli interessi e dalle urgenze dell’azione, la questione del senso di quell’azione. E per un singolare contraccolpo, mancando il luogo titolato, ogni luogo è buono per porre la questione. Senza titolo, però, cioè secondo l’ottica parziale e inevitabilmente distorta del contesto di azioni e interessi che la ospita. E’ così che al giovedì sera il rock diviene politico: non per fare la rivoluzione, o anche solo per dire il vero (o il falso), ma per trascorrere la serata e sbancare l’Auditel. Rockpolitik resta tuttavia una trasmissione ambiziosa. Ma se ne vogliamo misurare l’ambizione, che gli autori lo sappiano o no, non dovremo rivolgerci ai defatiganti monologhi di Celentano, bensì al bicchiere d’acqua che immancabilmente compare in scena. Celentano sorseggia. E in quella incerta pausa di riflessione, si fa per un momento lo spazio che un tempo c’era, e che oggi non c’è più. Si fa un silenzio quanto mai autorevole, eppure nessuno prende sul serio il modo in cui Celentano lo occupa con le sue stentate parole.