Da quando è stato abbattuto Saddam Hussein, la sicurezza regionale in Medio Oriente ha sempre avuto solo tre attori di prima grandezza: Usa, Israele e Iran. Si tratta di un equilibrio dinamico, sempre soggetto a cambiamenti nei rapporti di potenza, cambiamenti che peraltro registra con una grande precisione. Oggi, con la “crisi” tra Iran e Israele, siamo in presenza proprio di uno di questi cambiamenti. E’ come un sistema di vasi comunicanti: se qualcuno si indebolisce, qualcun altro si rafforza. A indebolirsi, a causa dell’andamento della guerra in Iraq, sono attualmente gli Usa, e di converso a rafforzarsi – per l’alto prezzo del petrolio, ma anche per la carta sciita giocata dagli americani – è proprio l’Iran. L’occasione per segnalare pubblicamente questa crescita di potenza è stata offerta all’Iran dalla storica paura israeliana di essere trascurati dagli Usa: perché in difficoltà, come sono oggi, oppure perché troppo morbidi su ciò che Israele ritiene decisivo rispetto all’Iran, cioè impedirgli di ottenere l’arma nucleare. Una paura esistenziale – accresciuta dai brutti ricordi dell’affaire Iran-contras sotto l’amministrazione Reagan – che ha fatto commettere un errore a Israele, subito colto dal Putin di Teheran, il presidente recentemente eletto Ahmedi-Nejad. L’errore ha avuto le sembianze di una squadra “duvdevan” (“ciliegio” in ebraico, nome in codice per le unità speciali infiltrate come arabi nei territori con il compito di catturare ricercati dallo stato ebraico), che domenica 23 ottobre scorso ha ucciso nel campo profughi di Tul Karm il ventiseienne comandante delle Brigate Gerusalemme Luai Sa’adi, il braccio militare della Jihad islamica nella Cisgiordania del nord. Ora, il nostro Sa’adi non era solo il capo militare di una fazione operativamente legata a Teheran (mediante Hizballah libanese) come la Jihad islamica, ma era anche parte di un precedente “accordo” che tempo fa sollevò parecchio scalpore: Sa’adi, in carcere in Israele dal 1999, fu infatti liberato all’inizio del 2004 insieme ad altri prigionieri palestinesi dal governo Sharon – che per quello “scambio” fu sul punto di cadere – in cambio della liberazione di un “uomo d’affari” israeliano (alcuni dicono in realtà colonnello dell’intelligence, capostazione in Libano) Elhanan Tenenbaum, rapito proprio dall’Hizballah libanese. Così Teheran, toccata due volte, ha colto l’occasione al volo. Tre giorni dopo, un doppio segnale: interno, con un kamikaze della Jihad islamica che nella città israeliana di Hadera ha trucidato cinque passanti; esterno, con le oramai celebri dichiarazioni del presidente iraniano Ahmedi-Nejad a un raduno pro-palestinese a Teheran, dove ha dichiarato che “l’entità sionista deve essere cancellata dalla mappa del mondo”. Naturalmente Israele ha reagito, chiedendo l’espulsione dell’Iran dall’Onu, e raccogliendo anche un inusuale consenso in Europa. Ma sono gli Usa, in quanto potenza esterna, il vero destinatario dell’azione iraniana. Si tratta di un avvertimento: nella forma di un kamikaze per chi non si ritiene abbia rispettato i patti, e di una sfida che compattando l’interno mostra sprezzo dell’inevitabile isolamento internazionale che ne deriverà. E se oggi si mostra indifferenza per l’isolamento internazionale, domani tale minaccia sulla questione nucleare sarà un’arma spuntata. Dunque un segno di forza, che mostra di saper registrare con precisione il deficit di egemonia che gli Stati Uniti stanno rivelando in Medio Oriente, e in Iraq in particolare, con conseguenti divisioni all’interno dell’Amministrazione, che hanno permesso di far scoppiare lo scandalo Plame. Divisioni sulla rotta da seguire precedute nell’agosto del 2004 dallo scandalo dei documenti sull’Iran, passati dai neocon del sottosegretario Usa alla Difesa Douglas Feith al Mossad, affaire portato alla luce da un’operazione di controspionaggio dell’Fbi. Del resto è stato proprio l’ex analista Cia Kenneth Pollack, in una deposizione in commissione al Congresso il 29 settembre scorso, a segnalare come “un’altra potenziale minaccia agli interessi americani è la possibilità che, a un certo punto, l’Iran scelga di combattere attivamente gli sforzi di ricostruzione in Iraq”. Finora ha scelto di non farlo, perché “la leadership iraniana, che conosce la società irachena molto meglio dell’Amministrazione Bush”, ha lo stesso interesse alla stabilizzazione che hanno gli americani. Finora. Se non disturbata. Altrimenti, oltre a utilizzare in Israele la Jihad islamica palestinese, potrebbe scegliere di giocare la carta irachena dove – sempre secondo Pollack – come deterrente “stanno costruendo una rete di intelligence assai vasta e ramificata, seppur non operativa”, visto che “se gli iraniani avessero voluto creare caos in Iraq avrebbero facilmente potuto […] e per fortuna degli Usa non lo hanno fatto”. Se lo faranno saranno dolori per tutti. Di qui il nervosismo israeliano, e le difficoltà strategiche statunitensi. (al 26 ottobre i soldati Usa morti in Iraq sono 2005).