Il suo nuovo lavoro, l’ennesimo di una carriera solista iniziata ufficialmente nel 1968, parla di praterie, di venti, di Re e Padri e chitarre vecchie. Lui, nelle foto recenti, sfoggia il consueto ghigno tirato, accompagnato da una faccia che racconta la sua parte di storia, perdita del padre e ricovero dell’anno scorso per aneurisma cerebrale inclusi. Non che si sia arreso alla disperazione: nel frattempo ha realizzato due album, un tour e due film, sempre facendo ritorno alla fattoria avita – l’unico posto al mondo dove può sentirsi “in sintonia”, probabilmente. In quel mito della frontiera del quale è discendente diretto, dovrebbe starsene in piedi, appoggiato al patio, lo sguardo all’orizzonte e una mano rilassata a sfiorare la pistola: un destino benevolo vuole invece che Neil Young da Toronto, Canada, non abbia mai imbracciato altro che una chitarra, acustica o elettrica a seconda degli umori. A proposito dei quali, il minimo che si possa dire di Neil è che non ha un carattere solare. In compenso, è fermo nelle sue convinzioni, condivisibili o meno. Una precisazione necessaria, visto che, a proposito del mondo, della natura, dei valori, della vita, dei soldi e della politica, il Canadese ha una sua personalissima visione. Come nella musica può e sa spaziare dal country al folk, dal rock all’hard, nel resto può apparire ora un naturalista radicale, ora un conservatore rurale. La celebre dichiarazione di voto a favore di Ronald Reagan rimane tutt’ora inspiegata, a meno di non immedesimarsi nell’uomo, nel suo essere un Southern Man nato molto più a Nord. Forse, se il signor John Kerry da New York avesse accompagnato la campagna elettorale con l’ascolto di “Harvest” o “Live Rust” avrebbe magari avuto un impatto differente con quel profondo Sud che non l’ha voluto a Washington.
Con “Prairie Wind”, da poco nei negozi, Neil ritorna al suo lato più intimista e sfumato (musicalmente), dopo che la malattia l’ha sfiorato di persona e gli ha portato via il padre; richiama i vecchi amici Ben Keith (“Harvest Moon”, tra gli altri), Spooner Oldham ed Emmylou Harris, tracciando in quel di Nashville dieci tranquilli bozzetti dove, senza autocompiacimenti o eccessi retorici, declama quello che il suo volto non tradirebbe mai, in nessuna fotografia. La tristezza per il padre, il ricordo dei padri putativi, Presley e Hank Williams (celebrato in “This Old Guitar”, la chitarra di Williams che Neil ha acquistato e suona, per così dire, religiosamente), l’amore per la natura e le cose semplici, in quel modo traditional che fa storcere il naso ai cattedratici progressisti. Poi, in “No Wonder” scrive di un soldato americano che muore, mentre alla radio suona una canzone di Willie Nelson; e nella title track canta: “Da qualche parte, un Senatore / Siede in una poltrona di cuoio / Il Caribou che ha ucciso / Non significa nulla per lui / Ha preso i suoi soldi / Come tutti gli altri”. Nessuna sorpresa, come recita un altro verso della stessa canzone: questo è Neil Young e se “Prairie Wind” non è quel capolavoro che molti vorrebbero, è comunque un album piacevole e interessante, proprio una visita a un vecchio amico. Parafrasando eterei profeti: Neil è lento, ma accidenti se è Rock.