Capita purtroppo al filosofo di non discutere quasi mai della cosa, ma delle condizioni alle quali si può discutere della cosa. E non sempre queste condizioni ci sono. In verità, di condizioni ragiona anche lo storico. Panorama ha anticipato il giudizio di Massimo D’Alema, raccolto da Bruno Vespa nel suo ultimo libro, sull’uccisione di Mussolini: inaccettabile, “un processo sarebbe stato più giusto, […] avrebbe consentito anche di ricostruire un pezzo della storia italiana”. Gli storici che hanno preso la parola non hanno mancato allora di ricordare condizioni e circostanze della fucilazione: la guerra, la repubblica di Salò, il tentativo di fuga, la concorde decisione di tutto il Cln…
Il filosofo però non è soddisfatto. Se è un filosofo morale, gli verrà fatto di pensare che le condizioni possono forse spiegare, ma non giustificare. Non è che questa distinzione fra spiegazione e giustificazione possa essere assunta così banalmente, ma lui la prende senz’altro per buona. Sta il fatto però che c’è anche il filosofo morale il quale considera che l’uccisione del tiranno sia l’atto più morale che ci sia, tanto più nel corso di una guerra, e che non ci sia un bel nulla di cui giustificarsi. È vero d’altra parte che un tal filosofo non è più di moda, perché oggi pare non vi sia atto politico che non debba assumere forma giuridica: nessuna esecuzione, dunque, senza un regolare processo, e forse nessuna esecuzione e basta.
Ma nove volte su dieci, il filosofo morale è il filosofo che vuol fare la morale, e si rivela così un cattivo filosofo. In fondo, la fa facile: ha i principi in una mano, e con quelli giudica. Per nulla filosofo è però anche quello storico che pensa che basti indicare il contesto per dar conto del testo – di qualunque testo, evento o documento si tratti.
Prende allora la parola anche il filosofo della storia, che non si trova a suo agio quando l’universale morale e il particolare storico si divaricano così nettamente. Il suo problema è la sintesi: sul piano morale valgono i principi, e su quello storico si fanno sentire le condizioni. Ma la sintesi? Possibile non ci si debba preoccupare di ciò che dai principi consegue sul piano storico, e di cosa i principi diventino, una volta acconciati alle condizioni? E il luogo di questa sintesi non è la storia?
“Già, la storia” esclama il filosofo della politica (spesso improvvisato). Qui però non si tratta del mero giudizio storico, ma di ciò che significa oggi dire quel che ha detto D’Alema. Perché D’Alema ne parla oggi? Ovviamente, tra tutti il filosofo morale è il più tenace, e non perderà occasione per intervenire nuovamente, deplorando l’uso politico della storia. (Il filosofo morale è uno specialista di quel genere di distinzioni, che nella loro indiscutibile chiarezza valgono finché rimangono puramente teoriche).
Ma il filosofo della politica non si lascia intimidire. Assistito sveltamente dallo storico della filosofia, che gli ricorda che qualcosa avrà pur detto, su questa faccenda, Benedetto Croce, il filosofo della politica sa che solo un interesse presente ci muove alla comprensione storica del passato: lui vuole comprendere questo interesse: cui prodest? Perché D’Alema tira in ballo l’uccisione di Mussolini?
Ma non c’è tempo per rispondere. Già il filosofo analitico ha preso la parola ed è pronto a obiettare: ci muoverà pure un interesse presente a comprendere il passato, ma non è comprendendo l’interesse che avremo compreso il passato.
Il passato?, tuona il filosofo nichilista. Ma ormai lo abbiamo sollevato, il macigno del passato! Ce lo siamo tolti dalle spalle! Questo e non altro significa che non esistono fatti ma solo interpretazioni, in conflitto fra loro. D’Alema lo sa, e dà la sua bella scrollata.
Senti un po’, attacca il logico (il logico e il nichilista vengono spesso ai ferri corti): vi siano pure tutte le interpretazioni che vuoi dell’assassinio di Mussolini, restano o no interpretazioni dell’assassinio di Mussolini? Come possono esistere molteplici interpretazioni in conflitto, se non sono molteplici versioni di uno stesso fatto? E se non sono in conflitto, ciascuna di esse non è più un’interpretazione-di (di cosa?), ma è solo il fatto che si interpreta così e così: invece di interpretazioni del fatto, avremmo solo il fatto di questa o quella interpretazione!
Inchiodato al fatto, il nichilista versa fiumi di bile. Il filosofo morale scuote il capo: a lui tornavan chiare (come spesso gli accade) le cose. Il filosofo della politica e quello della storia prendono a parlare fittamente, ma l’uno sembra piegare il passato al presente, l’altro il presente al passato, e così non si intendono molto. Lo storico si convince che ha sbagliato a infilarsi in questo turbine di chiacchiere: lui è uno scienziato serio e positivo, e sta ai fatti: vorrebbe proprio poter lasciare le interpretazioni agli altri (peccato non possa).
E il filosofo teoretico? Il filosofo teoretico ha taciuto. Ma non è restato con le mani in mano. Mentre gli altri si accapigliavano, il filosofo teoretico ha scritto quest’articolo, lo ha riletto, e ha scoperto con malcelata soddisfazione che ancora una volta si è sottratto a un sì o a un no. Ancora una volta, farà indispettire tutti per questo, ma è convinto che proprio così sarà stato al fatto. (Perché il fatto, lui, non è detto mica che sia sempre di un colore solo).