Martedì 1 novembre il governo israeliano ha approvato un piano a suo modo rivoluzionario quanto il ritiro unilaterale da Gaza: ha chiesto all’Unione europea di fornire osservatori comunitari e personale specializzato per ispezionare i viaggiatori che entrano nella Striscia di Gaza dall’Egitto attraverso il passaggio di Rafah. Così, dopo aver infranto il tabù della “Grande Israele” con il ritiro da Gaza, adesso Sharon sta compiendo un’altra rivoluzione – non solo diplomatica ma quasi esistenziale – nella politica estera israeliana, proponendo che sia l’Ue a detenere le chiavi di Gaza. Per chi conosce Israele sa che si tratta di una rivoluzione: l’antica e fortissima diffidenza per l’Europa – luogo dell’Olocausto – da parte di Israele era diventata nel tempo completa indifferenza. Il legame con gli Usa non ha mai lasciato spazio per alternative. Lo sanno bene i corrispondenti della stampa europea, che si vedono trattati come un insieme indistinto e di importanza pari alle isole Samoa rispetto ai colleghi americani. Non solo, questo cambiamento avviene nel sancta sanctorum della politica israeliana: la sicurezza. La sacra dottrina dello stato ebraico è infatti quella di non delegare a nessuno – nemmeno agli Usa – la gestione della propria sicurezza: da qui la decisa avversione a forze internazionali di qualsiasi tipo, vissute sempre come un’umiliazione perché assimilano Israele a uno stato “fallito”: basti ricordare la strenua resistenza che si dovette fronteggiare prima di riuscire a imporre a Israele un minuscolo – e disarmato – contingente multinazionale di poche decine di unità a Hebron, fatto di sparuti militari anche italiani, inviato dopo il massacro della Moschea dei Patriarchi del febbraio 1994 a opera di Baruch Goldstein. Oggi, si cambia: è Israele a sostenere che gli uomini Ue debbano avere poteri ampi, mentre sono i palestinesi a resistere. Tutto questo mentre la missione del generale Ward, inviato dall’Amministrazione Bush per riformare i servizi palestinesi è oramai fallita, e quella di James Wolfensohn – ex capo della Banca Mondiale, assai rispettato dalla Casa Bianca e inviato per conto del Quartetto – è sul punto di fallire, visto che lo stesso ha scritto una lettera il 17 ottobre in cui accusa le parti (ma soprattutto Israele) di un colpevole immobilismo che potrebbe portarlo alle dimissioni. Segni che testimoniano una crisi nell’influenza e autorevolezza degli Usa nel conflitto. La svolta, naturalmente, non è improvvisa. Nel luglio del 2003 Tony Blair ricevette con tutti gli onori Sharon, invitandolo anche a cena al numero 10 di Downing Street, onore riservato a pochissimi capi di stato. Contemporaneamente – va a suo merito – seppe cambiare la tradizionale impostazione filoaraba del Regno Unito, spendendola però (al contrario dell’Italia, che l’ha scialacquata) in un dialogo segreto con Hamas che ha costituito un vincolo politico per quest’ultima. Nello stesso periodo il rinnovo degli accordi di cooperazione scientifica tra Ue e Israele furono slegati da automatismi nei progressi del processo di pace: la richiesta, invece, divenne la firma di Israele al Trattato di Kyoto, che avrebbe reso valido e operativo il Protocollo. Una grande intuizione politica da parte della Commissione europea e del suo Presidente Prodi: è proprio sul rifiuto del Protocollo di Kyoto – oltre che sull’Iraq – che l’Amministrazione Bush ha costruito la sua politica estera unilaterale. Nel dicembre del 2004, infine, è arrivata la firma di un Piano d’azione comune Ue-Israele, che fa parte della politica europea di vicinato, e che prevede anche azioni di contrasto all’antisemitismo. Nel frattempo crescono in Israele master e borse di studio in “European Affairs”, così come il lavoro accademico di diversi centri studi. La manifestazione a Roma di giovedì 3 novembre ha costituito in questo senso una potente e graditissima conferma a Israele della via intrapresa: di qui il grande risalto con cui è stata seguita dalla stampa israeliana, la grande e felice sorpresa con cui è stata sottolineata la presenza anche della sinistra italiana, la piccata delusione – condita con battutine sul suo passato neofascista – con cui è stata fatta notare la defezione improvvisa del ministro degli Esteri Fini, che aveva promesso la sua partecipazione proprio in Israele, pubblicamente, davanti al ministro degli esteri Shalom. Insomma, il ritiro da Gaza ha rotto un tabù, e questa rottura ha introdotto nella politica israeliana più “politica” e meno “mito”. In questo contesto Israele si guarda intorno e ritiene – è stato scritto in un documento riservato del ministero degli Esteri di un anno fa – che in futuro non potrà più contare solo sulla relazione speciale con gli Usa. Anche perché le cose per gli Usa non vanno granché bene nella regione, e forse una potenza civile come l’Ue può rappresentare una carta interessante. Magari per bonificare il pantano iracheno. Sempre che l’Ue a sua volta riesca ad assumersi qualche responsabilità, a partire dalle funzioni da svolgere al valico di Rafah e dall’individuazione di chi ci potrebbe andare, dato che non è (ancora) dotata di un corpo di polizia. (Al 2 novembre sono morti in Iraq 2036 soldati Usa).