Una delle cose più fastidiose delle querelle televisive è che poi devi decidere da che parte stare e spesso la scelta non è affatto semplice. Astenersi non è concesso. Ma scegliere, in casi come quello di Bonolis contro la redazione sportiva di Mediaset o quello di Celentano contro il resto del mondo, può diventare un’impresa tanto improba da farci rimpiangere i tempi in cui ci chiedevano se volevamo più bene alla mamma o al papà. Fin da allora abbiamo imparato che qualsiasi risposta si rivelerà una fregatura. La situazione è cambiata però nel momento in cui Bonolis ha deciso che vincere la partita con Mediaset non gli bastava e ha cercato di stravincere, inimicandosi in un colpo solo qualunque giornalista nel giro di seicento chilometri e probabilmente anche una buona fetta del pubblico in ascolto. Perché a quel punto, che le troppe luci gli avessero dato alla testa – come ha malignamente insinuato Piccinini – è diventato difficile negarlo. Benché, a essere sinceri, alcuni gravi segni di cedimento li avesse già dati in precedenza, nelle stucchevoli tirate moraleggianti di Sanremo e perfino nell’autodifesa contro l’acerrimo nemico Ricci a Domenica In. Se non fosse stato per quel vezzo egocentrico che ha permesso a noi, a Piccinini e a chiunque altro di cimentarsi nel grande gioco del tiro al bersaglio, avremmo potuto dire con maggiore serenità quel che ci sembrava fin troppo chiaro. Novantesimo minuto era una trasmissione già morta da tempo, da quando cioè era ancora in Rai. Malgrado fosse, insieme alla Domenica Sportiva, la trasmissione di calcio più antica, quella descritta da tutti un po’ sentimentalmente come parte della sacralità del tanto declamato rito calcistico, sopravviveva da anni per semplice accanimento terapeutico. Era scampata a stento alla conduzione di Galeazzi e si trascinava faticosamente durante quella della Ferrari. Quella di Serie A era quindi già in partenza una scommessa difficile, ma non impossibile: in fondo anche i giocatori dati per finiti a volte riescono a risorgere cambiando squadra e preparatore atletico. Il punto è che la preparazione atletica della squadra Mediaset non ci sembrava tanto prodigiosa da sortire questi effetti. E non era prodigiosa né per la formula proposta (troppo lenta ed eccessivamente lunga) né per la parte strettamente giornalistica. A parte i soliti volti noti della redazione sportiva, infatti, la maggior parte degli altri non sembrava pronta per il salto in serie A. Tanto più in un campionato televisivo in cui oggi, grazie a Sky e al digitale terrestre, di persone che arrivano alle sei di sera senza aver visto gol e sentito commenti a profusione ce ne sono davvero poche. Alle storie poi che al pubblico non piacerebbe l’interruzione leggera dell’emozione calcistica non abbiamo mai creduto: anni di Quelli che il calcio e di Gialappa’s sono lì a dimostrarne l’infondatezza. Di tutto questo avremmo potuto farci scudo per prendere disciplinatamente posizione in questa vicenda, se improvvisamente Bonolis non si fosse creduto Celentano e avesse pensato di potersi prendere gioco, senza colpo ferire, di tutti i dirigenti dell’azienda in cui lavora. Ma il fatto è che non tutti hanno la resistenza all’impatto del Molleggiato, e soprattutto non tutti si limitano a cinque puntate ogni decennio. Per passare indenne attraverso i monologhi sul senso della vita e le ire “der penombra”, di Celentano avrebbe dovuto avere per lo meno gli stessi ascolti. E comunque, se tutto questo non fosse stato abbastanza chiaro allora, sicuramente lo è diventato solo qualche giorno dopo, quando Celentano ha magistralmente eseguito ciò che Bonolis nel suo piccolo aveva invano tentato di fare. Ha aspettato sornione gli ultimi minuti della trasmissione, ci ha spiegato dettagliatamente l’importanza morale del suo programma, ha ringraziato chi l’aveva difeso e attaccato chi l’aveva criticato. E ha chiuso da trionfatore. E’ stato allora più che evidente, dal confronto con il monologo di Bonolis, che non era lo stesso campo da gioco, non era lo stesso campionato e non era nemmeno lo stesso sport.