Si può imparare a morire? Ritiratosi nel suo castello dagli affanni della vita pubblica, Michel de Montaigne, poco sotto la quarantina ma ancora in salute, pensava che sì, non solo si può imparare a morire: si deve, anche.
Aggirandosi pensoso tra i libri della sua vasta biblioteca, attingendo avidamente agli exempla degli antichi, Montaigne si proponeva di illustrare nei suoi essais la grandezza di un uomo con l’esempio della sua condotta in articulo mortis. Dando fondo a tutto il suo bagaglio di cultura classica, convocando Cicerone, Seneca, Lucrezio, Plutarco e altri ancora, l’umanista francese si proponeva non di fuggire la morte tra i libri, ma anzi di attenderla ad ogni passo e di farvi fronte a piè fermo: voleva apprendere quella postura fiera ed eretta dell’anima, mentre il corpo si piega e cede, in cui consisteva per lui tutta la dignità del vivere. Che il morire sia una questione di dignità è un pensiero di cui coglieva nella gerla della storia antica tutte le possibili varianti, e che doveva ispirargli queste grandiose parole: “La premeditazione della morte è premeditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire”.
Poi Montaigne invecchiò, gli venne la calcolosi e qualche altro malanno, e in vecchiaia la sua prima riflessione stoicheggiante sulla morte cominciò ad apparirgli inutilmente aspra e innaturale. In luogo della prémeditation, Montaigne cominciò a pensare che la cosa migliore fosse la diversion. In breve: non stare lì a pensarci. L’idea che si dovesse costruire l’intera vita nella prospettiva della morte, quasi che il compito di una vita fosse quello di erigere il monumento funebre di se stessi, gli sembrava allora avvelenare inutilmente le gioie naturali del vivere. Giovane, aveva scritto: “Il rimedio del volgo è di non pensarci. Ma da quale bestiale stupidità gli può venire un così grossolano accecamento?”. Vecchio, si tiene proprio a questa “scuola di stoltezza” che insegna “a non pensare alla morte se non quando si muore”. Giovane, aveva ammirato Cicerone o Catone; ormai vecchio, scrive: “Sarei morto meno lietamente prima di aver letto le Tusculane? Penso di no”. E mentre il primo Montaigne aveva considerato senza inorridire il passo dalla libertà sovrana dinanzi alla morte, alla morte libera, alla morte volontaria, filtrando la sua indulgente disamina del problema attraverso la ricca casistica degli antichi (“è lo stesso – pensava – che l’uomo si dia da sé la fine o la subisca”), l’ultimo Montaigne fa esperienza di un altro modo di morire, di un morire languissante, senza timore né tremore, una volta che, caduto da cavallo, con la vita che lo tiene a fior di labbra, scopre della morte (che poi non sopraggiungerà) il volto “vicino al naturale”, di una dolcezza simile a “quella che provano coloro che si lasciano scivolare nel sonno”. Giovane, s’era augurato che l’istante della sua morte non sfuggisse alla presa della sua coscienza; vecchio, preferisce morire quasi senza accorgersene e si convince che è proprio la presa della coscienza, “la forza dell’apprensione”, ad alzare smisuratamente il costo del morire. Non è infatti perché abbiamo paura della morte, che dobbiamo prepararci a morire, ma è perché ci prepariamo a morire e ce ne diamo costantemente pensiero, che la morte ci fa paura. E così, dove prima stava il nobile proposito di imparare a morire, sta dopo la liquidazione di tutta la sapienza della quale Montaigne si era fino ad allora nutrito: “Se non sapete morire, non datevene pensiero. La natura vi istruirà sul campo, in modo completo e sufficiente; essa compirà a puntino questa operazione per voi: non preoccupatevene”.
Ma che si tratti della prima severità stoica o dell’ultima, tranquilla nonchalance, quel che colpisce è che sia comunque assente dalle pagine degli essais qualunque rappresentazione cristiana della morte. In effetti, Gesù muore in un altro modo ancora. Gesù non muore di morte naturale, e per i cristiani – in generale – la morte non è affatto naturale: è il salario del peccato, è l’ultimo nemico che il Signore ha vinto e vincerà per tutti noi, l’ultimo giorno. In croce, Gesù non si rassegna a morire, ma rassegna l’anima al Padre che è nei Cieli: sarà fatta la Sua volontà, cioè non si compirà un destino naturale. Ma prima di affidarsi al Padre, Gesù grida. Soffre; e grida. La sua morte non ha affatto la calma compostezza di un Socrate. Gesù avrà forse vinto la morte, ma viene sopraffatto dal morire. Oggi noi pensiamo che è di gran lunga più vicino al naturale (più vicino alla verità dell’umano) il grido dell’ora nona di Gesù, che non il dialogo di Socrate in carcere, prima di bere la cicuta. Ma, se anche così fosse, il gesto della remissione al Padre compiuto da Gesù (il gesto del cristiano) non solo non è naturale, ma non può esserlo. Non può esserlo, perché per un cristiano l’uomo non può contare sulle sole sue forze dinanzi alla morte: sarebbe di nuovo cadere nell’orribile presunzione stoica.
Quest’ultimo è un punto importante. Certo, è importante già solo sapere, ora che il dibattito sull’eutanasia va riaccendendosi, che vi sono molti modi dignitosi di morire: non uno solo. (E togliere ad un uomo il diritto di morire è pericolosamente complementare – sia detto en passant – ad attribuire quel diritto a qualcun altro). Ma è altrettanto importante ricordare che non si dà prova di grande coerenza prendendo il partito della natura quando si tratta del nascere, e cambiando partito quando si tratta di morire. E’ naturale lasciarsi morire, quando si è vecchi – pensava il vecchio Montaigne, che chiudeva gli occhi per “aiutare la vita a uscire da lui”: che altro è, questa, se non eutanasia? Pascal si infuriava, per questi sentimenti pagani (naturali, appunto, e perciò per lui indegni) a proposito della fine della vita. Io, forse, pur senza condividerla del tutto, capirei molto meglio l’arrabbiatura di Pascal, se lui si arrabbiasse anche contro i sentimenti pagani della Chiesa quando si tratta non della fine, ma dell’inizio.