Register to vote

Si dice ormai da molto tempo e da molte parti che la politica non riesce più a interessare, appassionare, coinvolgere. Lo stadio vuoto, come nella metafora più citata di Philip Gould. Tutto un magna-magna, come nella metafora più ascoltata nei focus group. La partecipazione, magica parola che Gaber cantava come la vera libertà, è il bene assoluto che governanti e politici cercano in percorsi che troppo spesso sembrano incerti e vani. Perché la politica non è più di tutti, ma solo di qualcuno. Perché la politica significa per chi tutto e per chi niente. Perché la politica si confonde con il potere e diventa difficile.
Eppure, si dice anche questo, c’è di nuovo voglia di partecipare, di sentirsi comunità, di superare la frammentazione individualista per una flessibilità identitaria che ci porta a condividere poco, ma con tanti e diversi. C’è di nuovo voglia di scendere in piazza. C’è la società civile che corre e gira. Ci sono i pacifisti con le loro bandiere e i no global con i loro tentativi di essere e farsi chiamare “new”. Nonostante a fare da capo-trenino ci siano vecchi intellettuali che di politica masticano da quando sono nati. E visto che chi va dietro a Casarini e Agnoletto (che per il correttore automatico di word sono “canarini” e “agnolotto”, è tutto dire) ne condivide le scelte musicali più che i pensieri da statisti dell’altro mondo possibile.
E poi ecco che arrivano le primarie. Strana tecnica che viene da lontano, per cui i candidati, addirittura, li scelgono – più o meno – gli elettori. Nessuno le voleva, tanti le hanno apprezzate, trasformando un voto di parte in grande evento politico e provocando, se non la nomina del leader, almeno la direzione delle successive scelte politiche. Insomma, avuta la parola, gli elettori hanno mostrato le competenze per usarla e usarla bene.
Si è riattivato, almeno per un giorno, un rapporto vero tra politica – come valori e pratiche di governo – e cittadini. Un rapporto che crediamo dovrà essere la domanda cui trovare risposta nel fare politica dei prossimi tempi. I politici, i leader, i governanti, vorranno e sapranno farlo? In modo non partitico-coalizionale, né bipartisan, ma per il bene della politica e delle istituzioni?
E allora una provocazione. Perché dal sistema americano non proviamo a prendere un altro elemento? La registrazione al voto. Se i cittadini dovessero registrarsi per poter esprimere il proprio diritto al voto, i politici dovrebbero promuovere la politica prima di promuovere se stessi. Forse sarebbero costretti ad ascoltare di più. A dare migliore e più riconoscibile forma alla rappresentanza degli interessi. O ad interpretare e offrire prospettive a chi pensa di non averne, e comunque mai dalla politica. E forse si occuperebbero della scuola e dell’università pensandoli come luoghi dove imparare a stare al mondo, un luogo politico, di educazione civica e civile, culturale e non solo nozionistica. E magari avrebbero il coraggio di scelte decise, che guardano e portano avanti. Insomma non una fatica burocratica in più, ma un atto di umiltà della politica che si rimette in gioco per dimostrare ai cittadini che ne vale la pena. Ne deve valere la pena. Mettiamo la politica ai voti, saprà di nuovo conquistarli.