La politica italiana, per come viene raccontata, somiglia sempre più a un fumetto a puntate da Corrierino dei Piccoli. Attori probabilmente inconsapevoli, protagonisti certamente loro malgrado: da un lato Gianfranco Fini e Francesco Rutelli, dall’altro Walter Veltroni e Pier Ferdinando Casini.
La storia comincia a Roma, con le elezioni comunali del ’93. Siamo in autunno, sulla scena nazionale tramontano i principali partiti della Prima Repubblica, la sinistra ha già vinto le prime tornate amministrative ed è ormai considerata sicura trionfatrice delle prossime elezioni politiche, se non altro per mancanza di avversari. Al ballottaggio per il Campidoglio vanno Francesco Rutelli e Gianfranco Fini. Sui giornali hanno appena cominciato a filtrare le prime voci su un possibile ingresso in politica di Silvio Berlusconi. Per questo motivo quando l’imprenditore della televisione dichiara che se fosse a Roma voterebbe per il segretario del Msi conquista subito la prima pagina, con titoli che oggi fanno persino sorridere (sul Corriere della sera l’apertura a nove colonne lo ribattezza “Il Cavaliere nero”). A sostenere Rutelli sono non solo i Progressisti di Occhetto (e i radicali di Pannella), ma anche i Popolari di Martinazzoli; l’operazione guidata dall’influente intellettuale della Quercia romana Goffredo Bettini rappresenta a tutti gli effetti l’embrione di quello che sarà l’Ulivo del 1996. Dall’altra parte, salvo per l’ovvia assenza della Lega, la benedizione berlusconiana contribuisce a trasformare la sfida per il Campidoglio in una prima prova delle successive politiche.
I Verdi di Rutelli e il Movimento sociale italiano di Fini allora non sono certamente al centro della vita politica italiana. La sfida romana, all’indomani del crollo dei grandi partiti e sull’onda lunga dell’infatuazione nuovista degli anni novanta, rappresenta per entrambi un’occasione unica. Da quel trampolino si lanceranno nella politica nazionale, dove però scopriranno ben presto che la prima fila è occupata.
Fini e Rutelli hanno dunque uno stesso problema. Per Fini, il problema si chiama Silvio Berlusconi: con la creazione di Forza Italia e la sua leadership sul centrodestra il Msi (e poi An) non ha che un ruolo marginale. Altrettanto si può dire di Francesco Rutelli, che vedrà presto l’esistenza stessa del suo (futuro) partito minacciata dal progetto di unificazione con la sinistra perseguito da Romano Prodi (una contraddizione che nella Margherita non tarderà a esplodere). Dopo un lungo periodo di sostanziale esilio dalla prima linea, l’uno come sindaco di Roma e l’altro come portatore d’acqua in una coalizione in cui conta poco o niente, sia Rutelli sia Fini si rivolgeranno naturalmente a chi con loro condivide il problema e l’attiva volontà di superarlo: Walter Veltroni e Pier Ferdinando Casini.
Comincia qui la prima striscia di quel fumetto che è diventata oggi la politica italiana sui mezzi di comunicazione e nel dibattito pubblico. Perché i figli del grande tracollo del sistema politico, gli ex leader di Verdi e Msi, per elementare calcolo politico o per un destino iscritto nelle peculiari condizioni della loro rinascita sulla scena nazionale, tenteranno in ogni modo di riprodurre quelle stesse condizioni e lavoreranno pertanto attivamente alla destrutturazione delle rispettive coalizioni. Il consolidamento del bipolarismo verso cui l’Italia sembra incamminata, con due alleanze tendenzialmente omogenee costruite attorno a un partito riformista guidato da Prodi e a un partito conservatore egemonizzato da Berlusconi, si rivelerebbe esiziale tanto per Rutelli quanto per Fini. In un simile riassetto la politica riprenderebbe a pieno titolo la guida del paese, dopo la lunga stagione della sua infermità assistita da tecnocrati e magistrati, giornali e movimenti più e meno spontanei. Naturale quindi che i ripetuti tentativi di ostacolare un simile esito da parte dei due leader suscitino molta attenzione in quella parte del paese che dal vuoto di potere apertosi nel ’92 non ha alcun interesse a tornare indietro. Una parte del paese cui non mancano i contatti fuori dell’Italia, con soggetti e istituzioni che dalla crisi del ’92 non hanno tratto minori benefici. Per rendersi conto di quanto questo intreccio pesi ancora nelle analisi e nei commenti che riempiono le pagine di quotidiani italiani e settimanali stranieri non c’è nemmeno bisogno di ricordare la leggenda dello Yacht Britannia. La celebre riunione alla vigilia delle grandi privatizzazioni che avrebbero fatto la felicità di gruppi privati nazionali e banche d’affari internazionali – quelle che parlano fluentemente inglese e olandese – dove si ritrovò il fior fiore della City insieme ai tecnocrati e politici italiani che quelle privatizzazioni avrebbero condotto.
Questa è la ragione per cui tanta parte della stampa italiana ha incoronato Francesco Rutelli leader della sinistra riformista e decretato anzitempo la morte del progetto unitario da lui tenacemente combattuto. Questa è la ragione per cui gli stessi analisti non hanno mancato di profetizzare l’inarrestabile ascesa di Walter Veltroni e l’inevitabile caduta della candidatura Prodi. Questa è la ragione per cui abbiamo letto tante volte della fine della leadership berlusconiana e della sua sostituzione da parte ora di Fini ora di Casini, salvo scoprire oggi che se mai tale successione avverrà, avverrà perché sarà stato Berlusconi a deciderlo e a indicarne i tempi e i modi.
Autorevoli settimanali internazionali spiegano oggi con tono grave come la sfida tra il Cavaliere e il Professore non sia altro che lo scontro tra due progetti politici egualmente inadeguati. E indicano invece in Fini e Veltroni i leader politici del futuro. Autorevoli quotidiani rilanciano in prima pagina simili analisi, come se i corrispondenti stranieri quelle stesse analisi le avessero lette da qualche altra parte e non su quegli stessi giornali.
Nel frattempo il partito di Pier Ferdinando Casini è dato dai sondaggi a percentuali minime; Fini fatica a mantenere il controllo di un’Alleanza nazionale sempre più simile all’Udc, lacerata dalle lotte di corrente; Walter Veltroni si ricandida a sindaco, smentendo definitivamente le voci che lo volevano già candidato premier; Francesco Rutelli oggi si dice entusiasta del progetto unitario e anzi esorta ad andare fino in fondo, verso il partito unico; Romano Prodi è ancora il candidato dell’Unione, anche grazie a quei quattro milioni di italiani che hanno partecipato alle primarie e agli oltre tre milioni che lo hanno votato, costringendo tutti i maggiori quotidiani a rivedere le loro analisi.
Dal laboratorio romano non è nata quella destrutturazione del bipolarismo sognata da tanti. Gli inconsapevoli protagonisti di quella battaglia tornano alle posizioni di partenza. L’egemonia capitolina può attendere, la stagione dei Ricucci, in cui il dialetto della capitale sembrava destinato a dettare legge anche a Piazza Affari, volge inesorabilmente al termine. Non a caso è a Roma che anche il quarto e più defilato protagonista di questa storia, Casini, affonda la propria rete di relazioni e consenso. Non sono certo un mistero né i suoi legami con la Chiesa né quelli con la famiglia Caltagirone. Se la politica italiana fosse un fumetto (e se Baccini si rivelasse più un segnaposto che un candidato, come qualcuno sostiene) nessun finale sarebbe più avvincente di una nuova sfida all’ombra del Campidoglio, tredici anni dopo quella tra Fini e Rutelli, che vedesse contrapposti Walter Veltroni e Pier Ferdinando Casini.