Continua il big bang della politica israeliana. Dopo una lunga e furibonda battaglia politica all’interno del Likud, il partito che contribuì a fondare nel 1973, Ariel Sharon lunedì 20 novembre ha rotto gli indugi. Costretto a muoversi dalla vittoria di Amir Peretz alle primarie laburiste – che decidendo l’uscita del partito laburista dal governo ha provocato l’automatica indizione di nuove elezioni politiche entro novanta giorni – in una solenne conferenza stampa ha annunciato l’abbandono del Likud e la fondazione di un nuovo partito, chiamato Kadima (“Avanti”).
In pochi giorni il nuovo partito centrista ha aggregato ben 17 parlamentari, solo tre meno dei laburisti, lasciando il Likud preda di una fortissima crisi interna: venerdì 24 la riunione del comitato centrale – alla quale si sono presentati in un’atmosfera assai mesta solo un terzo dei tremila delegati – ha così deciso di indire per il 19 dicembre le primarie per il nuovo leader, a cui parteciperanno i ministri Shaul Mofaz, Silvan Shalom e Ysrael Katz e i parlamentari Beniamin Netanyahu, Uzi Landau e Moshe Feiglin.
Quella di Sharon era una mossa attesa: egli aveva oramai perso il controllo del Likud, nonostante la sorprendente vittoria all’ultimo comitato centrale dove, malgrado il boicottaggio perfino da parte del microfono, era riuscito a impedire un’anticipazione delle primarie del suo partito. Ciò prefigurava uno scenario da incubo: rimanendo nel Likud Sharon infatti avrebbe fatto confluire lì la sua grande dote di consenso personale, ma dato che le candidature per le elezioni politiche sono decise dal partito su liste bloccate (cioè senza preferenze, esattamente come prevede la nuova legge elettorale proposta in Italia dalla Casa delle Libertà), il partito avrebbe assegnato le posizioni utili a essere eletti a esponenti contrari alla sua piattaforma politica. Sharon si sarebbe dunque trovato nella paradossale situazione di contribuire a eleggere deputati che poi lo avrebbero messo in minoranza. Così il Gulliver Sharon si è ribellato ai lillipuziani del suo partito.
Tutto ciò ha naturalmente profonde ripercussioni sul sistema politico israeliano, nonché sul sistema dell’interdipendente politica palestinese. Per quanto riguarda i palestinesi, tutto ciò rafforza il presidente Abu Mazen e la nuova leva del Fatah, con lui alleata in un patto politico contro la vecchia guardia e contro Hamas: se Sharon vincesse si potrebbe arrivare a un accordo di pace, Hamas si indebolirebbe (magari “costituzionalizzandosi”), e Israele potrebbe liberare quel Maruan Barghuti – anche in cambio della liberazione da parte degli Usa della spia israeliana Jonathan Pollard – che potrebbe così lavorare a saldare la nuova generazione del Fatah di cui è il carismatico capo (venerdì al primo turno delle primarie del Fatah Barghuti ha stravinto) al governo dell’Autorità nazionale palestinese, succedendo allo stesso (consenziente) Abu Mazen.
Per quanto riguarda la politica israeliana la principale conseguenza di questo big bang è la fine dell’era askenazita (gli ebrei provenienti dall’Europa dell’Est): Amir Peretz è sefardita (ebreo di provenienza mediorientale) e la sua ascesa ha fatto dire all’uomo forte del Likud Uzi Cohen che avrebbe appoggiato alle primarie non più Netanyahu (askenazita) bensì Shalom (sefardita), perché “non c’è modo che un askenazita come Bibi possa battere un sefardita come Peretz”. Tutti gli ebrei di origini marocchine, infatti, anche elettori del Likud, parlano ammirati di Peretz come di “dialna” (“uno di noi” in arabo), proprio come gli askenaziti dicevano “unsere” (“uno di noi” in yiddish). E la fine dell’epoca askenazita significherebbe anche la fine dell’epoca dei generali al comando della politica, poiché i sefarditi sono assai più sensibili, in quanto classi svantaggiate, ai temi sociali ed economici che a quelli della sicurezza, soprattutto in un contesto di relativa pace. In questo quadro è forte la solidarietà politica ed etnica tra gli askenaziti Sharon e Peres, che potrebbe avere anche riflessi politici.
Ma conseguenze assai interessanti la scelta di Sharon le avrà anche per la nuova destra occidentale: quella nata dalla saldatura tra neocon e conservatori. Questa nuova destra si è infatti ispirata direttamente alla destra israeliana del Likud. Non solo perché Israele è un paese di sette milioni di intellettuali con ramificazioni in tutto l’occidente, ma anche perché è quello che ha elaborato di più il concetto di sicurezza che oggi domina la vita contemporanea, e questa elaborazione è dal 1977 guidata dal Likud. Questo partito ha da sempre fondato la sua azione sull’ideologia di Ze’ev Jabotinski, che già negli anni trenta concepiva il sionismo non come ritorno degli ebrei alla loro madrepatria spirituale ma come un impianto di civiltà occidentale nel barbaro oriente: gli ebrei erano nati in oriente ma appartenevano all’occidente, con cui dovevano permanentemente allearsi. E per difendersi dagli arabi dovevano erigere un “muro di ferro”. Nel 1986 Netanyahu, allora ambasciatore negli Usa e alfiere di una più dura politica antiterrorismo da parte dell’occidente, pubblica quel “Terrorismo, come l’Occidente può vincere” che descrive i nemici di Israele come nemici dell’America e che influenza profondamente il secondo mandato di Reagan. Con lo scandalo Iran-Contras, però, viene a nudo l’ipocrisia di quella visione manichea che molto doveva alla guerra fredda, ed essa fu accantonata da un’amministrazione Bush sr. dove domineranno i conservatori realisti. Così i neocon si rintanano nell’accademia in attesa di tempi più propizi. La grande occasione arriva con l’11 settembre 2001: il paradigma della sicurezza della destra israeliana e dei neocon – che si basa sullo scontro di civiltà – diventa grazie a Bush jr. quello di tutto l’occidente. Oggi quella fase potrebbe chiudersi: Sharon il pragmatico va al centro e si divide dagli ideologi della destra estrema, dicendo così che una visione manichea non produce buona politica ma solo una guerra infinita. Del resto il pantano iracheno non è molto lontano. E questo rischia di essere un esempio contagioso (al 20 novembre sono morti in Iraq 2095 soldati Usa).