A volte penso sia una perdita di tempo / ascoltare quello che stai urlando, una pantomima senza parole / Non lo vedi? Predichi ai sordi / Mi anneghi nel tuo punto di vista / Le tue opinioni sono tue, io ho le mie / E quello che penso non significa nulla, per te”. Un’attitudine diffusa, di questi tempi. Uno stato d’animo; la percezione oppressiva d’una società malata e sorda al suo stesso disagio. Lo stato del mondo, insomma.
“State Of The World Address” è il titolo dell’album da cui sono tratti questi versi (da “Cornered”): pubblicato nel ‘94, è stato e rimane il paradigma della band che lo ha inciso, tanto dal lato musicale quanto da quello spirituale. In quel momento, il perfetto equilibrio è raggiunto, tra rabbia e protesta, metal ed hip hop. Per arrivarci, sono stati necessari sei anni e un’adolescenza non proprio tranquilla: Evan Seinfeld (voce, basso), Billy Graziadei (voce, chitarra), Bobby Hambel (chitarra solista) e Danny Schuler (batteria) sono quattro ragazzi di Brooklyn quando decidono di mettere in piedi una band chiamata Biohazard, “allo scopo di esprimere punti di vista politici e discutere i problemi della gioventù urbana, qualcosa che ciascuno dei membri della band ha provato di persona” (dalla biografia ufficiale). Ispirati da un’eterogenea schiera di musicisti che va dai Black Sabbath ai Public Enemy, passando per Bad Brains e Ramones, licenziano il primo, omonimo sforzo nel ‘90, con una piccola casa discografica e nessuna vera promozione: 40.000 copie vendute non sono un buon risultato, si ricomincia dalla strada – alla lettera. Il lungo tour (Europa inclusa) produce “Urban Discipline” (’92) che li impone tra i primi a miscelare il metal urbano con la ritmica rap; la durezza dei testi rispecchia la durezza della vita nei quartieri poveri e una visione pessimistica della società, fondendosi alla perfezione con gli stilemi dei due generi, nati in contesti differenti ma egualmente caratterizzati dalla necessità di esprimere qualcosa. Cosa sia, qui, il “qualcosa”, diviene più chiaro nel ’94 con S.O.T.W.A.: non siamo dalle parti d’una consapevolezza politica alla R.A.T.M. (si passa da deliranti proclami di battaglia a una rispettosa, e conservatrice, dedica ai veterani del Vietnam), né si sprofonda nel delirio di oscurità e morte interiore del metallo nordico. I Biohazard urlano di dolore e rabbia; c’è il malessere e c’è il problema – ma siamo lontani da qualsiasi soluzione, persino nichilistica. Questo non toglie che l’urlo abbia una forza impressionante.
Dodici anni dopo, “Means To An End” (’05) offre un gruppo ancora saldo nella proposta musicale. Ma dopo l’ottimo “Mata Leao” (’96) e il potente live “No Holds Barred” (’97), la band sembra avere smarrito non già l’ispirazione quanto la convinzione nel compito: in questo senso, l’ultimo lavoro appare parzialmente migliore dei precedenti “New World Disorder” (’99), “Uncivilization” (’01) e “Kill Or Be Killed” (’03). Meno monolitico e più strutturato nelle linee musicali, soffre tuttavia il paragone con quello stop-motion del ’94 da cui non riescono a evolvere, anche se impegno e stile sono sempre riconoscibili. Forse spiazzati da un degrado sociale ancora peggiore di quello da sempre descritto, dopo diciassette anni d’attività giungono a un bivio: continuare, in modo abomasico – o cambiare qualcosa, perché qualcosa è cambiato.
Epigono, con minor fortuna, dei Biohazard, Ray Cappo degli Shelter ammonirebbe: “Nulla è immutabile / Non posso restare uguale / tutto si ridurrà ad una lista di nomi e di posti / quando venti estati saranno trascorse?” (“When 20 Summers Pass”, 2000).