Lo sapevate che per fare un bonifico da Italia a Francia ci vogliono circa due settimane e nessuno è in grado di dare garanzie su tempi più brevi (nonostante esista, con tanto di nome, una procedura che assicura quarantotto ore)? E che una grande banca italiana e una grande banca francese di fatto non si parlano e non si conoscono (non, ovviamente, nelle grandi operazioni di mercato, quanto nelle piccole azioni quotidiane di gestione del credito)? E lo sapevate che per incassare in Francia, su un vostro conto, un assegno circolare italiano ci vogliono minimo dieci giorni, ma forse anche quattro settimane? Tanto per essere chiari: avete capito che sul conto italiano i soldi ve li tolgono oggi, voi partite di corsa e domani versate su un vostro conto francese, ma lì i vostri soldi li vedete dopo un mese?
Certo, il referendum ha bloccato l’avanzamento della costruzione europea (e dell’Europa), ma qui siamo ben più indietro. Siamo a un’Europa economica e monetaria dove le persone circolano liberamente e i soldi delle persone no. Dove le diffidenze incrociate battono la collaborazione. Dove l’Italia e la Francia si trovano distanti e separate, come se in mezzo, ripetendo l’antipratico giro che si compie viaggiando in treno, ci sia sempre una puntigliosa e burocratica Svizzera.
Accertata la vostra consapevolezza, Parigi, in un normale fine settimana di novembre, non lascia sentire neanche una traccia della puzza di bruciato che arrivare a Charle de Gaulle, l’aeroporto a nord di Parigi, avrebbe permesso almeno di subodorare. Sono infatti le banlieue nord quelle della crisi, mentre la sorte questa volta ha regalato al sud tranquille e ricche periferie residenziali. Zone distanti, e non tanto geograficamente, collegate dalla linea B della RER, la linea ferroviaria metropolitana parigina, capace di regalare a menti antropologhe tragitti di conoscenza di vivo interesse. Lì, andando e tornando dal nord, i neri e i magrebini ci sono, e non solo quelli ricchi e integrati che trovi su autobus e metro della vera e centrale Paris.
Ma in treno si arriva alla borghese ottocentesca Gare de Lyon. E niente da fare, le proteste in centro non si sentono. Solo un manifesto riporta alla memoria attuale il cittadino o il viaggiatore che non hanno troppa voglia di lasciarsi distrarre da un’atmosfera ancora non abbastanza natalizia. No à l’Etat d’urgence, si à l’urgence sociale. Un gioco di parole stuzzicante che nel prospettare una diversa gestione politica della crisi dei giovani delle periferie, si diverte ad opporre – separate dalla doppia e divergente urgenza – due parole: stato e sociale, con ciò che dovrebbe essere complementare che si ritrova contrario, diffidente e irrispettoso. Ma è poca cosa, un divertissement che non soddisfa, che lascia intendere ma non fa sentire. Certo si potrebbe credere che qualche fumo sia arrivato, a ritardare l’accensione delle luci natalizie, ancora poche e poco luminose. Ma così stiamo ancora cambiando discorso.
Le luci, nella ville lumière, sono elemento identitario importante, architettonicamente e atmosfericamente: sottolineano, raccontano, fanno sentire. Parigi non è una città che vuole vedere tutto, non vuole mostrarsi lucente e compatta. È fatta di chiaroscuri, di bagliori e zone d’ombra. È nei bagliori che ci si può affacciare per prendersi la gioia delle opportunità, nelle zone d’ombra che si trova protezione e rispetto per le diversità – una rispetto all’altra, non tutte rispetto a una. Ed è forse anche per questo che le banlieue bruciano e Parigi assorbe e scorre. Ed è forse anche per questo che l’Europa, finché non sarà una cultura, non riuscirà a essere nemmeno una moneta. Una cultura, sia chiaro, in positivo e non per difetto, come ad esempio nei ritardi dei treni: per par condicio due ore all’andata e una al ritorno, compensata da ultima parte del viaggio con il riscaldamento rotto. C’est l’Europe: buon viaggio.