Le parole di Romano Prodi e Massimo D’Alema alla conferenza programmatica dei Ds che si è chiusa sabato a Firenze appaiono come il segnale di un’epoca che volge al tramonto. Il candidato premier dell’Unione ha parlato del successo delle primarie come di un ponte tra partiti e società, il presidente ds ha evocato la fine della lunga stagione dell’antipolitica. Non si tratta solo del rimarginarsi della ferita del ’98, con la caduta del governo Prodi e l’aprirsi dell’ultima guerra civile nel centrosinistra tra girotondi, leader carismatici improvvisati e consumati imprenditori della politica intenti a rastrellare titoli della società civile per dare la scalata al centrosinistra. Quella che si chiude con la conferenza di Firenze è la stagione apertasi nel ’91: la crisi di trapasso italiana dal secolo breve al nuovo ordine mondiale, che nel nostro paese ha avuto come suo primo e più rappresentativo interprete il leader referendario Mariotto Segni, seguito da molti e non meno sfortunati epigoni. Una fase lunga e tormentata che pertanto può a buon diritto essere definita la stagione dei mariotti.
Tra ’92 e ’93 in Italia si è sviluppata una classica rivoluzione passiva, che ha parzialmente sostituito i gruppi dirigenti politici del paese, perpetuando però i caratteri fondamentali del vecchio sistema attraverso tutti i lunghissimi anni novanta, nei quali siamo ancora immersi, dalla struttura economica alla società. Si dice che la prima repubblica economica sia finita nel 2000 con i funerali di Enrico Cuccia, ma se questo è vero, la guerra consumatasi quest’anno attorno alla Banca d’Italia mostra anche qui che un nuovo ordine non è ancora nato. La forza della proposta politica di Prodi e D’Alema dovrebbe essere avvertita in primo luogo a sinistra come necessità di sopravvivenza: solo dall’unità delle principali tradizioni storiche e dal loro rimescolamento in un nuovo soggetto politico, che ne rivitalizzi i rapporti con la società, suscitando entusiasmo e partecipazione nei suoi vecchi militanti come nei suoi nuovi elettori, solo in questo stretto passaggio politico e culturale potrà ricomporsi la massa critica sufficiente a portare tutto il paese alla fine della transizione. Solo così la sinistra potrà ritrovare la sua funzione e assumere pienamente la guida del paese. Pienamente e autonomamente – non sembri un paradosso – perché solo dalla costruzione di un più grande e più radicato partito, che sia rappresentativo e riconosciuto tanto a Bologna quanto a Reggio Calabria e a Palermo, la sinistra potrà davvero aspirare a governare e a cambiare l’Italia in nome dei suoi valori.
Per lungo tempo in molti hanno profetizzato che la nascita di un partito riformista avrebbe provocato una scissione nei Ds e la formazione di un grande movimento radicale guidato da Fausto Bertinotti, che di fatto avrebbe egemonizzato la sinistra e spostato su posizioni massimaliste l’intera coalizione di Romano Prodi. E’ accaduto l’esatto contrario. E’ accaduto che l’impulso dato al sistema politico dall’unificazione tra Ds e Margherita ha rimesso in gioco tutti. E il primo a muoversi è stato proprio Bertinotti: dalla battaglia sulla non-violenza, anche in polemica con i no global, all’ingresso a pieno titolo nell’Unione e nel futuro governo (che sono scelte ben diverse dalla desistenza e dall’appoggio esterno del ’96), fino al tentativo di inserire la stessa Rifondazione in una più ampia formazione della sinistra europea. Un tentativo di cui l’abbandono della falce e martello nel simbolo rappresenta l’elemento simbolicamente più forte, ma forse politicamente persino meno significativo. E’ accaduto che Fabio Mussi, alla conferenza di Firenze, non ha esitato a schierare il correntone a sostegno della lunga e impegnativa relazione programmatica di Pier Luigi Bersani. E il passaggio dal Cofferati del 2002 al Bersani del 2005 è di per sé sufficientemente eloquente, crediamo, senza bisogno di ricordare la recente evoluzione dello stesso sindaco di Bologna, per cogliere la direzione e la rapidità del mutamento in atto negli equilibri della sinistra italiana.
Nanni Moretti è tornato al cinema. L’Unità non è più l’organo della contestazione ai Ds. I veleni dei soliti cantori della manetta sembrano ormai sempre più isolati. Persino l’ultimo dossier dell’Economist, con la sua singolare e così poco anglosassone bocciatura preventiva del futuro governo, alla fine non sembra avere la presa di un tempo.
Resta l’ultimo metro. Vincere le elezioni e conquistare una maggioranza sufficientemente solida, alla Camera e al Senato, da non consentire il riaprirsi dei giochi. Se così sarà, l’evoluzione del centrosinistra potrà consolidarsi tanto più agevolmente dinanzi al Big Bang del centrodestra post-berlusconiano. E la politica italiana tornerà a essere una cosa seria.