In Turchia si parla molto in questi giorni di una piccola notizia, insignificante per il resto del mondo: l’entrata in attività del primo pozzo petrolifero del Kurdistan iracheno. Una notizia che ha fatto divampare un incendio politico in Iraq e in Turchia. Per quanto riguarda l’Iraq, l’apertura del pozzo di Zakho, a venti chilometri dal confine con la Turchia, ha fatto zampillare con ancor maggiore virulenza la contesa per i proventi del petrolio tra le etnie irachene: mentre i curdi e gli sciiti sono per uno stato federale, anche perché ciò significherebbe che i proventi del petrolio estratto nei loro territori, dove abbonda, rimarrebbe in loco, i sunniti – che già hanno perso la supremazia politica in uno stato centralizzato – non ci stanno a rimanere a mangiare carne di pecora nelle loro regioni ricche solo di polvere.
La costituzione approvata il 15 ottobre prevede la gestione centralizzata dei “vecchi” pozzi, e la gestione federale di quelli “nuovi”: e visto che in prospettiva tutti i pozzi saranno “nuovi”, ciò non è stato abbastanza per fiaccare una guerriglia sunnita sempre più radicata e determinata. Non a caso nei giorni scorsi si sono avute due dimostrazioni di forza: la prima a Ramadi, dove per tutta la mattina di giovedì 1 dicembre insorti in armi hanno pattugliato in centinaia la città mentre la locale base di marine Usa si asserragliava nei bunker; la seconda a Falluja, dove il giorno dopo in un agguato con mine sono morti ben dieci soldati americani.
Per quanto riguarda la Turchia, la trivella del pozzo di Zakho ha toccato sul vivo il punto in questi anni assai sensibile dei rapporti con gli Stati Uniti. Recenti sondaggi, infatti, segnalano che mentre l’antiamericanismo in Europa è in discesa, in Turchia è invece in crescita: ed esso, contrariamente a ciò che succede di solito, riguarda tutti i segmenti della società. In un sondaggio del luglio 2004, addirittura un terzo dei turchi identificava gli Usa come la minaccia più grande alla pace mondiale. Eppure, tralasciando l’inossidabile legame di ferro tra i due paesi durante la guerra fredda, anche in tempi più recenti le cose sembravano andar bene: subito dopo l’11 settembre, per esempio, Washington indicava la repubblica turca come un “modello ideale” per il mondo islamico, ne faceva l’esempio più forte contro la “guerra di civiltà” e apprezzava con molte lodi la guida turca della missione Isaf in Afghanistan.
Che cosa è andato storto? Ci sono fattori strutturali e altri più contingenti. Per quanto riguarda i primi, le tensioni sono sempre esistite: solo che venivano nascoste dalla coperta bipolare della guerra fredda. Una volta gettata via la coperta – e in mancanza di una politica Usa adeguata ai nuovi tempi – quelle tensioni sono venute alla luce. Durante la guerra fredda, infatti, la divisione tra destra e sinistra mascherava in realtà ben altre identità: il nazionalismo curdo e l’islam politico. Il primo trovava il suo posto dietro la sinistra socialista, il secondo invece era parte della lotta anticomunista. Finita questa storica lotta, la Turchia si ritrova in un certo senso nella temperie “eroica” degli anni venti e trenta del novecento, quando fronteggiò molte ribellioni curde e islamiche con i precetti secolari e nazionalisti del kemalismo.
Oggi si pone dunque di nuovo la questione di definire che cosa sia il kemalismo. L’antiamericanismo nasce proprio dalla difficoltà di una simile definizione. Negli anni venti la risposta era semplice: un’agenda politica progressiva su cui basare uno stato-nazione turco e laico. Oggi però il kemalismo è una storia di successo ed è proprio questo successo, o la paura di intaccarlo, a trasformarlo in un’ideologia conservatrice, intransigente verso islamici e curdi. Infatti, quando dopo l’11 settembre gli Usa definiscono la Turchia non più come nazione “occidentale” ma come “modello” di islam moderato, i militari e i laici kemalisti – già allarmati da una vittoria degli islamici dell’Ak – la sentono come una scelta contro di loro. Così la politica Usa di portare la democrazia in Medio Oriente e l’identità kemalista cominciano a entrare in collisione.
Per quanto riguarda i fattori più contingenti, è l’interazione tra il problema curdo e l’intervento in Iraq a creare una miscela esplosiva. Una prima avvisaglia si ebbe già quando il parlamento turco, il 1 marzo 2003, negò alle truppe Usa il permesso di passare per la Turchia e dunque di aprire il “fronte del nord”. Cosa che costrinse uno scioccato Rumsfeld a cambiare i piani dell’invasione. E se l’elite era divenuta antiamericana per il dibattito sul ruolo turco nella promozione dell’islam moderato, la questione curda fa diventare antiamericano e ancora più nazionalista tutto il popolo. Già insospettiti dalla creazione delle “no-fly zone” per proteggere i curdi iracheni dopo la prima guerra del Golfo, infatti, oggi quasi tutti i turchi pensano che gli Usa sostengano uno stato curdo in Iraq, oppure che l’intervento Usa avrà comunque questo effetto. E il fatto che i curdi parlino di Kirkuk, la città petrolifera curda del nord dell’Iraq, come della “nostra Gerusalemme” aggiunge ansia ad agitazione.
Da notare del resto una curiosa notizia: il romanzo più venduto attualmente in Turchia è una fiction che descrive una guerra tra Turchia e Usa, una guerra proprio per Kirkuk. Tanto che qualche mese fa Aytac Yalman – ex comandante delle forze di terra – ha potuto dichiarare che la reale ragione per la quale gli Usa aiutarono la Turchia a catturare Ocalan nel 1999 fu perché volevano toglierlo di mezzo per aiutare i leader curdi iracheni Massud Barzani e Jalal Talabani. Esattamente quei leader che, secondo costituzione, entrerebbero in possesso dei proventi del petrolio di Kirkuk (al 30 novembre sono morti in Iraq 2113 soldati Usa).