Fornitori di un hardcore di qualità per le giovani masse suburbane”. Così, con una punta di bencelato snobismo, l’autorevole Rolling Stone Usa marchia i Pennywise. Giudizio ingeneroso e circonstanziato nello stesso tempo. Infatti, non è possibile scindere la band dall’immagine di alfieri della scena skate-punk – con ovvio contorno iconografico – e proprio per questo è facile indovinare quale sia il target sociale di riferimento. Questo non toglie, per contro, che i Pennywise abbiano un riscontro commerciale e di fama inferiore a quello di contemporanei ed epigoni quali Green Day, NoFx, Offspring, Blink 182. Pur essendo uno dei gruppi di punta del rilancio punk anni ’90 (con radici molto più eighties della media), non sono mai diventati – nel bene come nel male – un prodotto da consumare in fretta via radio Fm; anche e nonostante alcune prove opache con concessioni a cliché heavy e pop poco ispirati. Forse è la loro devozione al modello Bad Religion, inseguito tanto nello stile musicale quanto in quello vocale, a salvarli sia dalla sterile ripetizione di se stessi, sia dalla vertigine dell’alta classifica (vedere alla voce Green Day); forse, è l’attitudine punk viscerale che li porta a perpetrare gesti insalubri che nessuno ripete più dai tempi dei primi Sex Pistols, vertici di cattivo gusto che perfino Johnny Lydon rinnegherebbe tre volte prima dell’alba: ad esempio, vomitare sugli spettatori o sugli sponsor, perfino quelli “indie”. Eppure, è la dolorosa esperienza del bassista e fondatore Jason Thirsk, che chiudeva il conto con le sue dipendenze da alcool suicidandosi il 29 Luglio 1996. Tutte ragioni che, alle stesse latitudini musicali, in altre band, hanno originato autentiche leggende: i Pennywise, viceversa, rimangono un buon gruppo con un buon seguito, possibilmente con tavola a rotelle sotto il braccio.
Jim Lindberg (voce), Fletcher Dragge (chitarra), Byron McMackin (batteria) e Jason Thirsk fanno lega a scuola, in quel di Hermosa Beach (California, where else?), condividendo due fondamentali passioni: punk e surf. Dalla gavetta in differenti gruppi locali passano a fare sul serio nel 1989 con l’ep “A Word From The Wise”; il nastro arriva alle orecchie di Brett Gurewitz, anima a sei corde dei Bad Religion e titolare della Epitaph. Gurewitz li mette sotto contratto e loro lo ripagheranno rifiutando, più tardi, le ripetute offerte di seducenti major. “Pennywise” (’91) e “Unknown Road” (’93) li impongono subito all’attenzione ma con “About Time” (’95) compiono un mezzo passo falso. Le prove successive, “Full Circle” (’97, Thirsk viene sostituito da Randy Bradbury, suo insegnante di basso – curiosamente, quest’album ha lo stesso titolo dell’ultima prova dei Doors senza Morrison) e “Straight Ahead” (’99) mostrano segni di stanchezza, nascosti dal successivo “Live At The Key Club” (’00). La band riparte da “Land Of The Free” (’01), dove sale la temperatura politica dei testi e dall’ancor più incattivito “From The Ashes” (’03) ma è proprio con l’ultimo lavoro, il recente “The Fuse” (’05), che i Pennywise ritrovano la giusta misura e il passo degli inizi: l’album scorre con adrenalinica scioltezza, offrendo schizzi di sudore e corse mozzafiato a compensare, felicemente, la mancanza di soluzioni originali. La tavola è un po’ scheggiata, ma le rotelle non sono arrugginite.