Una tonnellata di esplosivo ad alto potenziale può causare molti danni. Quella utilizzata il 14 febbraio scorso per uccidere l’ex premier libanese Rafiq Hariri, in particolare, continua a risuonare e a far tremare il complicato sistema politico siriano-libanese. Da quella data infatti è stato un succedersi di scossoni: il sussulto nazionalista e antisiriano in Libano (protettorato siriano di fatto dagli accordi di Ta’if del 1989) delle manifestazioni degli studenti, poi culminato nelle elezioni politiche di questa estate; il ritiro delle truppe siriane; il primo rapporto della commissione d’inchiesta dell’Onu, presieduta dal giudice tedesco Detlev Mehlis, che lo scorso ottobre ha accusato dell’omicidio Hariri alti ufficiali siriani e libanesi, così coinvolgendo la Siria nell’inchiesta.
Il prossimo scossone verrà probabilmente martedì 13 dicembre, quando il giudice Mehlis presenterà al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il suo ultimo rapporto: l’inchiesta infatti va avanti, ma Mehlis ha già dichiarato che non è disponibile ad altre proroghe. Pure per un tedesco quadrato come lui sembra essere troppo un’inchiesta Onu che – come nel film The Interpreter – è diventata via via un affaire metà intrigo tra spie di mezzo mondo e metà questione di diplomazia internazionale. Con tutti gli ingredienti per gli amanti del genere: morte di un testimone chiave per un “incidente stradale”, testimoni d’accusa che improvvisamente ritrattano finendo in prigione per calunnia, altri che si rivelano dannosi perché in realtà agenti dei servizi, interventi dei governi per le testimonianze di personale militare (dopo molte difficoltà, cinque testimoni siriani hanno deposto nella sede Onu di Vienna solo con la garanzia di poter tornare in patria).
Che l’inchiesta Mehlis avesse imboccato questa strada è stato chiaro sin da quando le Nazioni Unite hanno fatto uscire “per sbaglio” una versione del rapporto di ottobre completa dei nomi dei sospettati: tra di essi vi erano Maher Al-Asad, fratello del presidente siriano, e il suo fratellastro Asef Shaukat. Da allora tutti hanno capito: l’inchiesta sarebbe stata usata da Usa, Gran Bretagna e Francia per ottenere un cambio di regime a Damasco. Questa rischiosa operazione ha due risvolti: uno internazionale e uno interno.
Per quanto riguarda il primo, la sfida sembra essere estromettere Bashar Al-Asad dal potere senza far precipitare la Siria in un turbine di instabilità, e fare la stessa cosa con il partito Baath senza che questo vuoto sia riempito da organizzazioni terroristiche, come è successo in Iraq. I leader arabi hanno peraltro espresso a Kofi Annan, durante un suo recente viaggio in Medio Oriente, la loro grande preoccupazione di ritrovarsi un nuovo Iraq alle porte di casa. Ma la cautela più grande viene dall’esercito di Israele, non solo perché “è meglio un Asad debole che qualcun altro” ma soprattutto perché si rinuncerebbe con qualche sofferenza al patrimonio di contatti segreti con l’élite alauita al potere in Siria. Del resto si rincorrono voci di una prossima offerta siriana a Israele per riaprire colloqui di pace.
Per quanto riguarda, invece, i risvolti interni alla Siria, la domanda è se gli “Emiri” – la più ristretta cerchia del potere intorno al presidente – proveranno a disfarsi di Bashar e della sua famiglia nella speranza di salvarsi. Ma un golpe di palazzo richiede un’alleanza tra esercito, servizi di sicurezza e leader della comunità alauita. In più, la classe sunnita dei mercanti dovrebbe essere d’accordo, così come la minoranza drusa. E una tale coalizione è difficile si possa formare nell’ombra. Per questo, secondo il carismatico e rispettato leader comunista Riad Turki, che ha passato decenni in prigione, è da escludersi una rivoluzione come quella di Kiev o di Tiblisi. Inoltre i Fratelli Mussulmani – per bocca del loro leader in esilio Sadr ad-Din al-Bayanuni – invitano alla prudenza, temendo un altro bagno di sangue come quello di Hama, la città che nel 1982 fu letteralmente rasa al suolo da Hafiz al-Asad perché ospitava una forte organizzazione dei Fratelli Mussulmani, con circa ventimila morti.
Eppure si colgono alcuni scricchiolii: molti uomini d’affari di una certa levatura hanno lasciato il paese, alcuni a Parigi altri a Dubai; da un po’ di tempo è in atto un discreto flusso di ritiri di depositi dalle banche, mentre la banca centrale immette grandi quantità di denaro per frenare la caduta della valuta; inoltre, la comunità alauita non è più unita come un tempo, dato che il clan del generale Ghazi Ka’an – morto “suicidato” dopo aver tentato di distanziarsi dai personaggi alauiti dei servizi coinvolti dell’inchiesta Mehlis – pensa sia stato avvelenato; in Libano ci sono voci di cristiani prima fedeli alla Siria che ora cercano la protezione della chiesa maronita. Insomma, martedì un altro scossone farà tremare il Libano e dunque la Siria. Vedremo la sua intensità. In ogni caso è probabile che un effetto domino possa innescarsi solo se e quando cadrà il presidente libanese cristiano filosiriano Emil Lahud, che la commissione Mehlis individua come destinatario di una cruciale telefonata da parte di un sospetto su un’utenza “sporca” pochi minuti prima che Hariri saltasse in aria. Al momento, il Patriarca Maronita Sfeir – in concerto con Hizballah – sta ritardando la sua cacciata, temendo il pericoloso precedente di un presidente cristiano cacciato dalle altre confessioni, i sunniti di Hariri e i drusi di Walid Jumblatt. Ma quando troverà un candidato cristiano alternativo accettato dalle altre confessioni, mollerà Lahud al suo destino (forse anche giudiziario). E una volta caduto Lahud, sarà molto difficile per Bashar rimanere in piedi. Per questo la battaglia per Damasco comincia a Beirut, e il destino di Bashar Al-Asad sarà suggellato nella residenza di Ba’bda, il palazzo presidenziale libanese (al 7 dicembre 2005 sono morti in Iraq 2133 soldati Usa).