Per scongiurare la morte, l’homo sapiens la congeda. Per evitare di dover risolvere il problema, lo cancella” (Michel Onfray, Trattato di Ateologia). Si dibatte spesso, negli ultimi tempi, riguardo l’atteggiamento della moderna società occidentale nei confronti della morte; ed è opinione prevalente che si sia ormai rimosso o si cerchi di rimuovere l’argomento, con il solo risultato di produrre ulteriore alienazione, di perdere in umanità; di privarsi di una “cultura della morte” che sia anche “cultura della vita”. L’edonismo consumista, la perdita delle radici e la crisi dei valori ci avrebbero resi imbelli e immaturi. Questo sarebbe il frutto acerbo della cultura occidentale e della modernità: la rimozione della morte. E la conseguente svalutazione della vita.
Si tratta di un’analisi basata sul momento storico, sui modelli valoriali e sul confronto con le altre civiltà; si tratta di un’analisi, tuttavia, che non sembra fare i conti con una disciplina moderna davvero interessata all’argomento: la musica metal.
Il tema della morte, come ogni appassionato ben sa, è congenito al genere, ne è un topos primario, fondante: dagli albori – quando “heavy metal” (termine mutuato, secondo alcuni, da un racconto di William Burroughs) coincideva con una versione incupita dell’hard rock – alle lancinanti estremità odierne, la morte è stata un argomento temuto o corteggiato, invocato o respinto, annunciato o promesso, ma sempre presente. E una robusta catena, arrugginita ma non corrosa, lega tutte queste differenti immagini e rappresentazioni nel corso del tempo: la morte nel metal è solo dannazione e disperazione; promessa di sofferenze in confronto alle quali la peggiore esperienza umana è una vivace passeggiata al sole del pomeriggio. Su questa raggelante certezza convergono le liriche e i riff di tutti i gruppi, da quelli maggiormente orientati a temi di impegno sociale (che si tratti dell’angoscia urbana o del sovraffollamento mondiale o dell’ecosistema in pericolo) ai discepoli di Lucifero (passando dal divertissement di sano cattivo gusto a chi ha capito come si vende; sino al girone occupato da quelli che ci credono, sia pure con diversità d’intenti e d’interpretazione, non solo sul piano artistico). Fino alla descrizione, ora puntuale ora metaforica, degli infiniti problemi dell’esistenza quotidiana. A tutto questo si contrappone ogni volta un’Antagonista peggiore, pronta a infliggere ferite più profonde, a procurare dolori più atroci, a prolungare all’infinito la mutilazione delle carni e dello spirito. Non c’è fuga dal ghetto, ricovero nella natura, conforto nel sentimento, se non come brevi e crudelmente ingannevoli attimi di sollievo.
Non c’é da stupirsi, dunque, se il metal, i suoi interpreti e persino i semplici fan siano (sorta di contrappasso in vita) al centro di un processo indiziario volto a dimostrare e proclamare le conseguenze nefaste di una simile disciplina: casi di suicidio o di omicidio anche recenti hanno avuto sullo sfondo – o in assoluto primo piano – il rapporto tra questa musica e i suoi fruitori. Discussione il più delle volte pronta a dimenticare il senso originario della musica e il suo legame con la realtà, per risolvere tutto in una ridicola accusa di eterno infantilismo (se così fosse, si tratterebbe comunque di un infantilismo non patologico, simmetrico all’attuale senescenza creativa della cultura e della politica).
“People try to put us down / Just because we get around / Things they do look awful cold / Hope I die before get old”, scriveva ben quarant’anni fa Pete Townshend degli Who: epigrafe precoce e terribile; desiderio innaturale espresso ad alta voce; esplosione di rabbia e frustrazione mista a una resa che è segno di disprezzo. Attualmente, Pete Townshend ha cinquantotto anni, gode di buona salute e continua a cantare questa canzone.