La vicenda finanziaria degli ultimi anni rivela la dissoluzione della borghesia capitalistica italiana, ma anche l’impotenza politica, prima ancora che economica, delle forze che puntano a soppiantarla. Da qui l’accentuazione del grado di dipendenza dall’estero del nostro sviluppo e la perdita finanche delle parole con cui discuterne il destino. Non è un caso se, da più parti, spesso in modo tendenzioso, si riannoda la bagarre bancaria degli ultimi mesi alla vicenda Telecom del 1998-2001. Quella storia infatti assume il valore di una parabola e non è inutile oggi riesaminarla.
Quando Roberto Colaninno, reduce dal successo di Omnitel, mobilitò decine di miliardi con l’ausilio di Enrico Cuccia per un’opa totalitaria si alzò un fuoco di sbarramento inaudito. I giornali della borghesia, un giorno invocavano l’arrivo di un cavaliere bianco straniero per far giustizia dell’ambizione di costruire un “campione nazionale”, il giorno dopo intimorivano gli azionisti dipingendo scenari di rovina per un’azienda caricata di debiti da finanzieri senza morale, entrambi i giorni accompagnavano queste analisi con ritratti grotteschi degli “impresentabili” scalatori e con minacce, neanche velate, contro chi aveva osato favorire un simile cambiamento degli equilibri consolidati. Nonostante quella pressione, né il Governo, né la Banca d’Italia si misero di traverso ostacolando un’operazione di mercato e l’opa andò a buon fine. Nessuno, neanche a Milano, che dovrebbe essere il foro competente, ha mai indagato sulle modalità con cui, attraverso campagne di stampa, esposti giudiziari e speculazione sul titolo, il riassetto di quell’azienda fu ostacolato (non fu mai raggiunto in borsa il valore del titolo che avrebbe consentito il concambio tra azioni Telecom e Tim, accorciando la catena di comando e stabilizzando i conti del gruppo) né risulta che siano stati aperti fascicoli sul modo in cui gli scalatori, al cambio di governo, furono indotti a vendere a un finanziere di ben altro rango, senza opa, sulla base di un accordo che riguardava anche la non belligeranza di Telecom sul mercato televisivo presidiato dal nuovo presidente del Consiglio.
Molti grandi imprenditori italiani infatti, in quegli anni, spaventati dall’euro, pensavano di rintanarsi chi nella produzione di energia, chi nella gestione di aeroporti e autostrade, chi, ovviamente, nel settore telefonico e per fare questo avevano bisogno di un governo conservatore guidato da un uomo condizionato da un enorme reticolo di conflitti di interesse. Altri, che non avevano un potere negoziale diretto verso il governo, hanno comunque voluto incrementare il loro peso politico acquistando quote di banche e di giornali. Dopo cinque anni il bilancio d’insieme di quella vicenda vede Omnitel passata agli inglesi di Vodafone; Telecom, che vale in borsa un quarto di quel che valeva allora (con buona pace degli azionisti di minoranza), ha molte decine di miliardi di debiti, ha tenuto ferme le televisioni, ha venduto diverse società ad alta tecnologia (da Sogei a Finsiel alla divisione cavi della Pirelli), ha potuto acquisire la Tim per pagare con i suoi ricchi introiti gli interessi sui debiti, non ha però ridotto il canone per la clientela né la sua presa monopolistica sul mercato interno, gli azionisti di controllo hanno sviluppato una ricca attività immobiliare (Pirelli real estate), non si ha notizia di progetti di internazionalizzazione né di piani di sviluppo di nuove tecnologie e nuovi prodotti. Telecom non è diventata un “campione nazionale”, semplicemente non se ne parla più.
In verità se ne è parlato di recente, ma sono pettegolezzi, fantasticando di una soluzione draconiana agli impacci politico-imprenditoriali di Berlusconi: Mediaset a Tronchetti, Telecom al Cavaliere. Sembrerebbe l’uovo di Colombo, non potendosi più fare quello che riuscì a Gardini: vendere allo Stato Enimont al doppio del valore.
Il raider mantovano invece, con la sua plusvalenza, ha comprato dagli Agnelli la moribonda Piaggio, cui ha aggiunto la Guzzi e l’Aprilia, dopo dieci anni in cui in Italia si vendevano solo ciclomotori giapponesi, ed è andato in Cina con una joint venture, dove, se le cose gli andranno bene, è presumibile che entro dieci anni trasferirà l’intera produzione.
Tornando all’oggi, senza dilungarsi sulla vicenda Antonveneta-Banca d’Italia-Bnl, di cui si è scritto e detto già troppo, è bene riflettere sulle condizioni strutturali che rendono così oneroso per il paese il declino della sua borghesia produttiva. Dalla proprietà di televisioni e giornali (non privatizziamo la Rai, per carità!) allo sfacelo dell’Università, dal meccanismo autoreferenziale: indipendenza della magistratura-obbligatorietà dell’azione penale (che spesso si traduce in eterodirezione e discrezionalità) all’assenza di un management imprenditoriale che non sia forgiato nel liberismo apolide e politicamente corretto della McKinsey, dalla carenza di autonomia organizzativa e culturale dei partiti politici al conservatorismo rinunciatario di un sindacato declinante.
Quanto alle forze nuove dell’economia, cooperative e banche popolari sono sicuramente tra gli attori dalle maggiori potenzialità. I loro leader però, invece di dissimulare la propria estraneità all’agonizzante salotto, imitando in modo grossolano le astuzie finanziarie degli insider, cosa che li farà sempre rimanere fuori della porta se non in pericolo, farebbero bene a investire di più sulla loro alterità derivante da una secolare e gloriosa tradizione solidaristica. E’ il solo modo per mobilitare il potenziale consenso politico alla loro espansione. Alterità quindi, non solo etica o di comportamenti, ma nel proporsi al servizio di una diversa visione del paese, delle sue risorse, del suo sviluppo.
Infine, ma non per ultimo, bene la riforma della Banca d’Italia. Sarebbe auspicabile un Governatore che possa completare la trasformazione competitiva del nostro sistema bancario, dandogli una proiezione compiutamente europea. Il Financial Times ha notato che dopo le dimissioni di Fazio si sono impennati in borsa i titoli delle banche italiane, perché si presume che sarà più facile scalarle. Il successore, chiunque sia, deve esser tale da far ricredere il notista del giornale londinese. Difendere l’autonomia della Istituzione che va a dirigere e quella del sistema bancario che andrà a vigilare è il mandato che andrebbe dichiarato in modo esplicito dai diversi attori che concorrono alla sua nomina.