Dopo avere disertato le elezioni costituenti del 30 gennaio e parzialmente anche il referendum confermativo della Costituzione del 15 ottobre, i sunniti iracheni hanno votato in massa alle elezioni politiche del 15 dicembre scorso. L’affluenza totale dei quasi sedici milioni di aventi diritto è passata così dal 58 per cento di gennaio (la stessa cifra dell’affluenza alle ultime presidenziali Usa) al 63 per cento del referendum, per toccare il 70 due mesi dopo. Nella provincia sunnita di Anbar si è passati dall’1 per cento di gennaio al 32 di ottobre, per toccare il 55 per cento il 15 dicembre. Che cosa ha prodotto questo cambiamento? Malgrado gli speranzosi proclami di Bush, purtroppo, non siamo di fronte a una accettazione sunnita dell’inevitabilità del nuovo Iraq né a una sconfitta della guerriglia, bensì a un suo cambio radicale di strategia, che ne segnala piuttosto la flessibilità – anche per la esibita comprensione del rapido mutare della situazione politica regionale – e dunque la forza politica. Molti i segni in questo senso, a partire dal fatto che il giorno delle elezioni – per un accordo informale tra guerriglia e autorità – la sicurezza nelle zone sunnite e ai seggi è stata assicurata da milizie tribali, mentre le truppe Usa e irachene sono rimaste nelle caserme. Del resto molti capi sunniti hanno dichiarato proprio in quei giorni che il voto diventava “complementare” e non “alternativo” alla resistenza contro l’occupante.
Molti fattori, interni ed esterni all’Iraq, hanno contribuito a far sì che il mondo sunnita rinunciasse a quel particolare non expedit che rischiava di spingerlo ai margini dell’Iraq di oggi. Tra i fattori interni vi è sicuramente una crescente insofferenza verso gli “afghani”, cioè i tagliatori di teste di Al-Qa’ida, capitanati dal giordano Ahmad Fadìl Nazal Al-Khalila, meglio conosciuto come Abu Musab Al-Zarqaui. Non a caso una voce anonima – che per questo aveva rinunciato ai 25 milioni di dollari della taglia – l’anno scorso aveva informato le forze di sicurezza irachene su dove si trovasse; ma non riconosciuto, era stato scarcerato. Il terrorismo dei kamikaze promosso da Zarqaui, infatti, non solo isola i sunniti e li rende più deboli, ma li spinge verso una causa del jihad globale che ad essi (ancora) non interessa. Inizialmente, infatti, la piattaforma politica dell’Associazione degli Ulama’ in Iraq – fondata cinque giorni dopo la caduta di Saddam Hussein nell’immensa moschea Umm Al-Qura di Baghdad, famosa per essere stata costruita dal regime dopo la guerra nel Golfo del 1991 con i minareti a forma di missile Scud – non era basata sull’Islam, bensì su un mix di diritti universali e nazionalismo: invece del termine “jihad” l’Associazione preferiva il più neutrale e inclusivo “muqauuama” (resistenza), preso in prestito da Hamas per significare che gli Stati Uniti si comportavano in Iraq come Israele nei territori palestinesi. La pressione delle armi e dei kamikaze di Al-Zarqaui aveva però schiacciato l’Associazione su una piattaforma solo militare e jihadista, lasciandole sempre meno spazio e impedendole di esercitare il ruolo di controparte sunnita della Marja’iya (autorità religiosa) sciita di Najaf guidata dal Grande Ayatollah Ali Al-Sistani. Così, la rapida virata: partecipare alle elezioni per reintrodurre la politica nel discorso sunnita e marginalizzare i gruppi “afghani”. I quali, infatti, hanno tentato di impedire la partecipazione alle elezioni, anche con una fatua, ma ne sono stati impossibilitati dal non potersi nascondere tra la popolazione sunnita. A favorire poi questa decisione è stato anche un secondo fattore: l’accorto cambiamento del sistema elettorale. Mentre infatti le elezioni di gennaio avevano un collegio unico nazionale, in quelle di dicembre i distretti erano 18 e coincidevano con le province. Dunque sempre un sistema proporzionale, tarato però sulla popolazione – perché ogni provincia elegge un numero di parlamentari ad essa proporzionale a prescindere dal numero di votanti – e non più sull’affluenza. A perderci sono state le province sciite del sud e curde del nord, caratterizzate da un’alta affluenza che dunque risulta inutile perché il numero di parlamentari rimane fisso, mentre a guadagnarci sono state quelle a predominanza sunnita del centro, dall’affluenza più bassa. E ciò è direttamente legato al terzo fattore che ha invogliato i sunniti a prendere in mano oltre che le armi anche la politica: eleggere adesso quanti più parlamentari possibile è per i sunniti una carta irrinunciabile per tentare di cambiare quella costituzione, approvata il 15 ottobre, che essi sentono come punitiva, specialmente in termini di redistribuzione della ricchezza petrolifera. Tale costituzione, infatti, nel futuro sarà difficile da emendare senza il consenso di sciiti e curdi insieme, poiché tale processo richiederebbe la maggioranza dei due terzi. Tuttavia un accordo siglato alla vigilia di quel voto – proprio per facilitare la partecipazione sunnita – crea una temporanea possibilità di farlo dopo le elezioni del 15 dicembre con una maggioranza semplice. Il nuovo Parlamento potrà infatti entro quattro mesi istituire un comitato ad hoc in tal senso: gli emendamenti da esso proposti potranno essere approvati dal Parlamento con maggioranza semplice. Dunque ogni parlamentare diventa cruciale, così come sarà possibile – anzi necessaria – una politica delle alleanze più mobile e accattivante. E gli Usa hanno intelligentemente deciso di aiutare questo processo, agitando spesso quella exit strategy che non solo calma il fronte interno, ma anche ammorbidisce l’intransigenza verso i sunniti di sciiti e curdi, poiché costituisce anche una velata minaccia di abbandonarli nelle mani dei sunniti infuriati se tirano troppo la corda.
Infine, a questi fattori interni se ne sommano poi anche altri di tipo regionale. Uno è la continua storica tensione nella politica irachena tra nazionalismo arabo e nazionalismo iracheno: il primo vede una stretta connessione tra l’Iraq e le altre nazioni arabe, mentre il secondo si concentra più su un ruolo dell’Iraq in quanto nazione singola e casa di tutte le componenti, compresi i curdi. La costituzione appena approvata, in buona sintesi, è fondata sul secondo. Di qui l’allarme delle altre nazioni arabe, e di qui il nuovo ruolo che la Lega Araba – rompendo i precedenti sdegnosi indugi – vuole giocare in Iraq per raddrizzare la bilancia: a partire dalla Conferenza di riconciliazione nazionale da essa organizzata al Cairo dal 19 al 22 novembre scorso, dove sono intervenuti tutti i partiti e i settori della società irachena. Al Cairo la parola “resistenza” è stata legittimata, mentre il “terrorismo” è stato denunciato; in cambio, la Lega Araba ha deciso di dare legittimità diplomatica al nuovo sistema politico iracheno, premendo sui sunniti affinché cooperino, convincendoli che essi in Iraq sono oramai una minoranza che si può salvare solo se si appoggia alla grande maggioranza di sunniti della regione. Peraltro ai paesi arabi circostanti una più forte e politica presenza sunnita in Iraq è indispensabile per cercare di controbilanciare la sempre più aggressiva presenza dei nuovi conservatori iraniani, in Iraq e nella regione tutta. E difatti il secondo fattore esterno che ha spinto i sunniti iracheni a rientrare nel gioco politico è la pressione in questo senso della Giordania. Paese al quale l’Iraq è legatissimo dalla comune discendenza reale della casata hashemita, tanto stretta che portò nel 1958 i paesi a federarsi brevemente nell’Unione Hashemita. Ebbene, la Giordania sta cercando di costruire un “muro sunnita” che faccia argine alla “mezzaluna sciita” (da Beirut al Golfo, passando per Baghad) a cui sta lavorando attivamente il nuovo Iran di Ahmadinejad: tanto attivamente da fare nascoste ma forti pressioni sull’Ajatollah Sistani, che si spingono perfino alla compravendita di case e terreni tutto attorno alla sua casa di Najaf. Per costruire il “muro sunnita” è però indispensabile il sostegno dei sunniti iracheni, che devono quindi essere strappati dalle grinfie di Al-Zarqaui, che invece li vuole per il suo Jihad globale. Per questo Al-Zarqaui risponde portando il suo terrorismo anche in casa giordana, come è successo con le bombe del 9 novembre ad Amman e ancora prima con quelle del 12 aprile ad Aqaba. Con uomini e mezzi reclutati in Iraq – attualmente enorme base di reclutamento di tutta Al-Qa’ida – e dunque sconosciuti ai servizi giordani.
Insomma, per una serie di circostanze interne ed esterne i sunniti iracheni hanno mostrato votando in massa di avere ritrovato una loro centralità politica. Ma che nessuno si faccia illusioni: la useranno, insieme alle armi, per cercare di trovare un ruolo accettabile nel nuovo Iraq. Tutto ciò non esclude dunque il temuto esito di una guerra civile: la rende solo l’ultima risorsa. D’altronde questo gli Usa lo dovrebbero sapere bene: nelle elezioni presidenziali del 1860 l’affluenza negli stati del sud fu assai alta. Ciononostante l’anno dopo la guerra civile scoppiò furibonda e sanguinosa (al 21 dicembre sono morti in Iraq 2161 soldati Usa).