Il libro intervista di Fausto Bertinotti, Il ragazzo con la maglietta a strisce (Aliberti editore), si può leggere in due modi. Come una sorta di Recherche proustiana, cioè una ridescrizione di se stessi ad uso pubblico. Oppure come una chiacchierata sullo stato e il ruolo della cultura, un po’ rimasticatura del pensiero negativo francofortese e un po’ «costruzione di uno spazio pubblico» possibilmente nuovo. Il tutto tenuto insieme da una domanda che aleggia in un’aria tiepida da caminetto acceso (il libro nasce da una conversazione amichevole con la regista Wilma Labate): che vuol dire essere comunisti qui e ora?
Nella sezione proustiana si usano parecchio due parole: “confine” (bella) e “attraversamento” (bella ed evocativa). “Confine” vuol dire limite non soltanto – come uno si aspetta – tra destra e sinistra, ma anche tra il centro e la periferia della Milano del dopoguerra, tra madre cattolica e padre anarchico e «dolcemente anticlericale». “Attraversamento” è invece il naturale tentativo di superamento di quel confine. Ecco allora il viale e il tram che uniscono il di-qua e il di-là quando Fausto va alle scuole medie perché «tu devi andare a scuola ed essere irreprensibile». Ed è confine attraversato con sereno senso del dovere anche quello tra una coppia che, al di là delle differenze culturali, è animata dall’«idea che la famiglia è finché morte non ci separi». E poi l’impiego alla Camera del Lavoro di Novara – stipendio basso, ma «mi pareva di toccare il cielo con un dito» – gli scioperi e le occupazioni degli anni Sessanta, le donne del tessile che «nella lotta e nel letto nessun rispetto». C’è anche spazio per un po’ di malinconia in bianco e nero e di groppo alla gola: «la polvere di cotone, che quando queste donne escono dalle fabbriche ne sono coperte, sui capelli, tutto addosso… Come vedi, ho qualche tratto di commozione…».
Fin qui la Recherche, che rimpasta il ricordo personale perché – e, in questo caso sì, «il privato è politico» – alla fine sono tanti gli italiani che si riconoscono (o che riconoscono il proprio padre e la propria madre) in quella speciale dignità di una famiglia che esce dalla guerra e tende positivamente verso il futuro.
Ne Il ragazzo con la maglietta a strisce c’è però anche la conversazione sulla cultura, decisamente meno bella e più piatta soprattutto nel linguaggio, ma anche un po’ nei contenuti, piuttosto prevedibili. Perché espressioni come «deprivazione di intelligenza critica» oppure «relazione tra la dinamica dei movimenti e il posizionamento delle culture prevalenti nel mondo della produzione» sanno tanto di birignao antagonista. Se uno mette tra parentesi la liturgia semantica da Censis sovietizzato, alcuni passaggi meritano di essere ricordati. La cultura – sostiene il leader di Rifondazione – deve contribuire a creare uno spazio pubblico, prima liberato e infine liberante: «temperiamo la grevità e la corruzione della società dei consumi con l’arricchimento della cultura… può diventare la leva, una delle leve, della costruzione di un diverso assetto economico ecologicamente sostenibile e socialmente e democraticamente progressivo». Una delle leve. Sbagliano dunque gli intellettuali se vivono se stessi come una casamatta sottratta al mercato, come i soggetti portatori della salvezza in un mondo dominato dalla deriva ipercapitalistica della dittatura del tempo-ora. L’idea – «nella sinistra» – che la cultura sia salvifica in quanto tale è un abbaglio. Si può creare un nuovo spazio pubblico soltanto se quell’«eccezione» diventa prolifica e contamina le «altre sfere che oggi subiscono le influenze predominanti del mercato». E l’attore di questo processo è soprattutto il Movimento. La cultura ufficiale insomma, casomai Bertinotti volesse per sé la carica di ministro della cultura (e perché no?), è avvertita.
Ma la saldatura tra Proust e Francoforte avviene sul terreno – ebbene sì – di un ennesimo “attraversamento”, che poi sarebbe la risposta al domandone finale che aleggia intorno al caminetto. «Io sto spendendo la mia esperienza – dice il Bertinotti politico – per contribuire a costruire una forza comunista che è nata dalla rottura verticale e irriducibile proprio con il comunismo fattosi stato». Cosa c’è di comunista in te? Gli chiede la Labate attizzando il fuoco. E il ragazzo con la maglietta a strisce, tirando una boccata acre di toscano, risponde: «E’ liberazione». E in questa risposta mi sa che c’è molta Recherche.