Il libro-intervista di Roberto Colaninno con Rinaldo Gianola non poteva uscire in un momento migliore. Primo tempo (Rizzoli) è la storia di un imprenditore partito da una piccola azienda, passato poi dalla Sogefi all’Olivetti e di qui ripartito per la “madre di tutte scalate”, quella alla Telecom. Un colosso che avrebbe conquistato, gestito per pochi anni e infine abbandonato tra molte amarezze, per ricominciare ancora una volta da capo con la Piaggio, che proprio ora si appresta al debutto in Borsa, dopo essere stata risanata e avere compiuto importanti acquisizioni.
Difficile oggi trovare un solo rigo o una sola dichiarazione su Roberto Colaninno che non trasudi altissima considerazione per il serio imprenditore, rappresentante di un capitalismo sano, capace di investire nella produzione, così distante dagli avidi speculatori protagonisti delle cronache di questi mesi. A conferma della tesi, i suoi tardivi sostenitori non mancano mai di ricordare che con l’innominabile bresciano, Emilio Gnutti, il bravo Colaninno dopo l’esperienza Telecom non ha più voluto avere nulla a che fare. Dimenticano però di ricordare che la ragione della rottura tra i due è stata proprio la scelta, cui Colaninno si oppose strenuamente, di vendere il pacchetto di controllo Telecom a Marco Tronchetti Provera, decisione che naturalmente tutti i nuovi apologeti del Ragioniere salutarono e tutt’ora ricordano come un miracolo della Provvidenza.
Quando Roberto Colaninno lanciò l’opa su Telecom e finché restò alla guida del gruppo, trovare dichiarazioni di elogio simili a quelle che abbiamo appena ricordato sarebbe stato assai più difficile. Quando Colaninno si mise in testa di soffiare il colosso delle telecomunicazioni alla Fiat – che ne poteva disporre a piacimento avendoci investito appena lo zero virgola qualcosa per cento – i mille articoli di giornale e i molti libri che di lì a pochissimo sarebbero stati dedicati alla sua impresa non scelsero toni sostanzialmente diversi da quelli oggi dedicati a Giovanni Consorte e all’Unipol. Identiche erano le critiche nel merito: un’operazione a debito di natura speculativa, in cui il piccolo tentava di mangiarsi il grande, messa in atto da una cordata di signori nessuno dalle oscure fortune, raider senza scrupoli e così via. Identiche erano le accuse “politiche”: collateralismo con la sinistra e in particolare con l’allora capo del Governo D’Alema, colpevole di avere fatto il tifo per i nuovi “capitani coraggiosi” e di non avere usato la golden share per fermarli. Identici erano i mezzi di pressione impiegati per colpire gli uni e gli altri, gli imprenditori e i politici accusati di sostenerli: fiumi di inchiostro, inchieste vecchio stile e paginate di ricostruzioni scandalistiche tese ad accreditare – più che una concreta ipotesi accusatoria – l’idea di un mondo opaco e avido, in cui la commistione tra affari e politica autorizzava qualsiasi sospetto. Anche qui, con l’ausilio dei soliti intellettuali, giornalisti e politici sempre pronti a levare l’indice accusatore contro “la sinistra che smarrisce i propri ideali” dai giornali della Confindustria, cui si aggiunse ben presto – a riconferma del perfetto parallelismo con le attuali vicende – la campagna della destra su quell’autentica montatura meglio nota come Telekom Serbia. Come ha giustamente ricordato Carlo Derrico nel suo articolo del 27 dicembre (vedi qui) a proposito delle molte analogie tra gli scandali di questi mesi e la scalata Telecom, “nessuno, neanche a Milano, che dovrebbe essere il foro competente, ha mai indagato sulle modalità con cui, attraverso campagne di stampa, esposti giudiziari e speculazione sul titolo, il riassetto di quell’azienda fu ostacolato (non fu mai raggiunto in borsa il valore del titolo che avrebbe consentito il concambio tra azioni Telecom e Tim, accorciando la catena di comando e stabilizzando i conti del gruppo) né risulta che siano stati aperti fascicoli sul modo in cui gli scalatori, al cambio di governo, furono indotti a vendere a un finanziere di ben altro rango, senza opa, sulla base di un accordo che riguardava anche la non belligeranza di Telecom sul mercato televisivo presidiato dal nuovo presidente del Consiglio”.
Ripetiamo: “Sulla base di un accordo che riguardava anche la non belligeranza di Telecom sul mercato televisivo presidiato dal nuovo presidente del Consiglio”. E consigliamo in proposito il capitolo di Primo tempo dedicato al tentativo di costruire un terzo polo televisivo da parte di Colaninno, in cui si spiega chiaramente come andarono le cose. Possiamo però anticipare qui la morale che il capo della Piaggio ne ha tratto: “In Italia chi tocca la tv muore”. Eppure non si ricordano molti vibranti articoli dei tanti accesi antiberlusconiani dedicati a quel significativo passaggio. Forse perché erano troppo intenti a tuonare contro la “merchant bank di Palazzo Chigi” e a denunciare sempre nuovi inciuci tra D’Alema e Berlusconi, per accorgersi di come andava a finire l’unico serio tentativo di spezzare il duopolio televisivo mai tentato in Italia.