Con il voto dei poliziotti e dei servizi di sicurezza, anticipato di qualche giorno per assicurare un loro pieno impegno nel regolare svolgimento delle elezioni quattro giorni dopo, i palestinesi hanno cominciato a votare. Concludendo così quella che per loro è la più importante campagna politica dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat nel settembre del 1993.
Oggi però siamo in una fase completamente diversa. Ambedue i protagonisti sono morti – probabilmente ambedue di morte violenta – e stessa sorte ha seguito sia il processo di Oslo sia il suo succedaneo, la road map. Dunque, mentre prima la questione era il riconoscimento dei palestinesi come popolo – simboleggiato dal riconoscimento israeliano e internazionale dell’Olp come soggetto fondamentale e dunque coincidente con l’Autorità nazionale palestinese – oggi la questione è quella della costruzione dello Stato palestinese. Non “se” ma “quale” Stato palestinese: perché il “se” è stato già deciso con il processo di Oslo, ed è implicito nel riconoscimento dei palestinesi come popolo. E’ questa la posta in gioco nelle elezioni palestinesi del 25 gennaio: quale debba essere la sua estensione, territoriale e politica. Una partita complicata perché non è affare solo palestinese, ma anche israeliano e internazionale, degli Stati Uniti in primo luogo.
Gli Stati Uniti sono infatti la potenza esterna regolatrice, mentre i due sistemi politici israeliano e palestinese sono interdipendenti: soprattutto quando in ballo ci sono questioni costituenti. Come accade oggi, sia per il voto palestinese sia per quello israeliano del 28 marzo. Non a caso essi votano per la prima volta allo stesso tempo, e ciò non per coincidenze temporali ma quasi per un invisibile eppure concreta forza della politica: in Israele, infatti, le elezioni si dovevano tenere nel novembre del 2006, ma la crisi del governo innescata dal ritiro da Gaza dell’agosto 2005 le ha anticipate a marzo; in Palestina, invece, le elezioni per il parlamento erano previste per il luglio 2005, e per le crisi interne sono state posticipate al gennaio 2006. Il fattore più importante per determinare l’estensione delle basi politiche – e dunque anche di quelle territoriali – del futuro e inevitabile Stato palestinese non è il risultato di Hamas bensì quello di Fatah. Che Hamas – decidendo di partecipare alle elezioni, nonostante alcune divisioni interne – abbia già vinto, è comune sentire. Tanto che Sharon, prima di scomparire dalla scena politica, aveva nominato un comitato politico, capeggiato dal suo fido consigliere Dov Weisglass, per valutare le opzioni in mano a Israele dopo il voto palestinese, basando questo lavoro sull’assunto che Hamas avrebbe vinto o comunque ottenuto un’influenza decisiva nella politica palestinese. Nel caso di Fatah, invece, le opzioni sono assai più divaricate: potrebbe rimanere il primo partito, ma potrebbe pure clamorosamente arrivare secondo. In questo caso – poiché è squassato da una lotta feroce tra la vecchia guardia e i “giovani leoni” sostenuti da Abu Mazen – potrebbe indebolirsi talmente da far venire a mancare l’appoggio sul quale contava il presidente Abu Mazen per il suo disegno di allargamento delle basi politiche dello stato, basato sulla “costituzionalizzazione” di Hamas. Tale disegno infatti ha bisogno di un Fatah dotato di una sua consistenza politica e per questo capace di passare da un sistema monopartito a uno bipolare: solo così Hamas sarebbe costretto a contrattare per poter intervenire nel processo politico, sia nel caso di un governo formato da Fatah con i partiti progressisti minori (Palestina indipendente, lista Badil, Fronte popolare di liberazione della Palestina, accreditati di un 26 per cento complessivo), sia in quello più probabile di unità nazionale, che costituisce il vero obiettivo politico di Abu Mazen. Del resto il presidente palestinese sta lavorando con tenacia a questo esito, che ha preparato con l’inserimento nell’attuale governo di un esponente di Hamas, Mazen Sinnukrot, attuale ministro dell’economia nazionale.
Abu Mazen è stato tra i primi a capire che si è rotto il cordone ombelicale tra Fatah e Autorità nazionale palestinese. E che Hamas è più duttile di come viene dipinto, come mostra anche la recente notizia che proprio Hamas ha ingaggiato una ditta di pubbliche relazioni per migliorare la sua immagine in Europa e negli Usa. Del resto la tregua degli attentati era finita il 1 gennaio e ciononostante è stata mantenuta in vigore, rotta solo dal pasticciato attentato del gruppuscolo filo-Hizballah della Jihad islamica il 18 gennaio a Tel Aviv. Tale valutazione adesso trova sostenitori anche in alti ufficiali dell’Israel Defence Force, che hanno fatto sapere come prevedano in caso di risultato positivo per Hamas una sua decisione di mantenere la tregua decisa circa un anno fa.
Il problema è dunque non il pragmatismo di Hamas, ma proprio la rottura del cordone ombelicale tra Anp e Olp, con la necessaria ma dolorosa trasformazione di quest’ultimo in un normale partito politico. Una trasformazione che però Fatah deve affrontare rimanendo in piedi, perché è il solo a disporre del capitale politico internazionale necessario a far funzionare un governo capace di costruire uno Stato palestinese politicamente e territorialmente solido. Al presidente palestinese non serve altro: se riesce a far nascere la nuova politica palestinese, il suo compito e il suo posto nella storia è già assicurato. La vittoria politica di Hamas è del tutto gestibile: Abu Mazen è stato eletto con il 62 per cento dei voti su una piattaforma di moderazione e negoziazione sulla quale c’è un consenso popolare e nazionale, di cui Hamas è ben consapevole. A patto che nessuno perda la calma in Palestina – in particolare la vecchia guardia di Fatah – o in Israele, Europa e Stati Uniti. Ma quest’ultima è tutta un’altra storia, che parlando di Palestina si intreccia purtroppo con i fantasmi della guerra al terrorismo. Con effetti deleteri sia per una convincente analisi della prima sia per un’efficace gestione della seconda (al 16 gennaio sono morti in Iraq 2242 soldati Usa).