Fa male chi sbertuccia l’idea del “contratto con gli italiani”. Perché un conto è Benigni che mette su una parodia neanche tanto originale, un altro è la politica. Piero Ostellino ricorda, da liberale vero, che la titolarità del potere è del popolo mentre l’esercizio è dei suoi rappresentanti. Le elezioni, che sono la messa cantata di quella sovranità, servono a scegliere chi si ritiene adatto alla rappresentanza, e – dunque – all’esercizio del potere. Ma la sovranità non cessa quando si chiudono le urne. Perché allora la delega sarebbe in bianco e senza responsabilità non si dà democrazia. Ecco, il contratto è un atto trasparente grazie al quale gli elettori possono controllare se hanno fatto bene a fidarsi di Tizio o di Caio. E indicatori oggettivi e verificabili ci fanno dire che Berlusconi se ne debba andare a casa perché quel contratto non lo ha onorato. Ma c’è di più. Mauro Calise ricorda, in La terza repubblica, che sta tramontando il “direttismo”, l’idea cioè che l’elettore scelga direttamente il premier. Con l’avvento del “nuovo” proporzionale infatti tutto torna più torbido e – dunque – l’azione di governo meno accertabile. Proprio per questo, l’idea del contratto ci pare mille volte giusta. Perché è un modo per salvare quello spirito maggioritario che non circoscrive l’esercizio della sovranità popolare al solo momento delle elezioni. Date uno sguardo alle chiese: le messe cantate sono sempre più vuote.