Dopo l’ascesa di Ahmadinejad, l’inclusione di Hizballah nel governo libanese e la recente vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi, è probabile che ora l’ondata dello tsunami suscitato dallo spericolato e incosciente disegno Usa di un “nuovo Medio Oriente” arrivi nei paesi del Golfo, e li colpisca duramente. In particolar modo l’Arabia Saudita. Anche in questo caso facendo crollare quello statu quo ritenuto – non a torto – infettato dai germi dell’11 settembre, senza però avere lavorato per la sua sostituzione con equilibri più avanzati. Perché giusta era la diagnosi delle malattie del Medio Oriente – già proposta da esponenti realisti dell’Amministrazione Bush padre – ma improvvisata la terapia propinata dagli infervorati e ideologici dottori neoconservatori di Bush figlio, più preoccupati della sua bellezza estetica e brillantezza formale che della sua pratica riuscita. Tale terapia, come sappiamo, si basa su una cura da cavallo di protagonismo politico sciita. Del resto nella visione neoconservatrice del mondo esiste una sorta di analogia fra il destino degli ebrei e quello degli sciiti. Non è un’idea balzana: entrambe minoranze perseguitate, hanno potuto sopravvivere con una fedeltà viscerale alle proprie Sacre Scritture, e per questo hanno grande dinamismo e forza interiore.
Il problema è l’applicazione con forza imperiale, su una regione in bilico, di questa equazione politica e affinità esistenziale: mentre farvi ricorso non muta il ruolo di Israele, cambia invece di molto la forza politica degli sciiti. Soprattutto quando il loro nuovo protagonismo politico si incrocia con assetti decrepiti. Come nel caso dei paesi arabi del Golfo. Mentre infatti la difficile questione della successione e del ricambio al vertice – che agli inizi degli anni ’90 riguardava tutto il Medio Oriente – è stata via via risolta in Marocco, Siria e Giordania, e ora anche in Palestina, essa ha oggi il suo epicentro di crisi proprio nel Golfo e in Egitto. Ma mentre nel grande paese dei faraoni non c’è una minoranza sciita, in tutto il Golfo ce n’è invece una molto forte: in Bahrein, addirittura, gli sciiti sono maggioranza numerica, anche se ancora minoranza politica. Così la loro forza, accresciuta dagli effetti della guerra in Iraq, potrebbe risultare destabilizzante per gli assetti di potere dei paesi del Golfo. In Kuwait se ne è già avuto un assaggio. Quando a metà di gennaio è morto l’emiro Jaber Al-Sabah, in occidente nessuno ci ha fatto caso. Ma la cosa non è andata completamente liscia. Secondo la Costituzione, infatti, doveva succedergli l’erede designato Saad Al-Sabah. Il presidente del Parlamento, però, si è dichiarato in disaccordo: il vetusto erede era già molto malato e una successione del genere avrebbe indebolito il paese. Soprattutto in tempi di protagonismo sciita, interno e internazionale. La questione era venuta già fuori due anni prima, quando a Saad fu chiesto di parlare al Parlamento ma si rivelò incapace di giurare ergendosi da solo in piedi dal podio, così come richiesto dalla Costituzione. Allora i suoi sostenitori affermarono che il giuramento non era esplicitamente richiesto, mentre i suoi avversari sostennero il contrario. Saad rinunciò a parlare. L’ostacolo si è però riproposto al momento della morte dell’Emiro, perché la successione può avvenire solo dopo un giuramento pubblico. Martedì 31 gennaio il Parlamento kuwaitiano ha accolto l’indicazione del suo Presidente, e ha rimosso con un voto all’unanimità l’erede designato dall’incarico per ragioni mediche. Ora il Kuwait prepara all’incoronazione di un nuovo emiro.
In Arabia Saudita la spallata può essere più forte, e il ricambio più traumatico. In questo paese vivono infatti due milioni di sciiti, il 15% della popolazione totale, per lo più però nelle province dell’est che si affacciano sul Golfo. Proprio dove sono concentrati i maggiori giacimenti petroliferi sauditi. Ogni eventuale grado di federalismo in più saranno altrettanti miliardi di dollari in meno nelle casse dei Saud. Una casata che sta esaurendo le proprie energie: il rigido sistema di successione, incentrato sui figli del fondatore del regno Abdul Aziz, si sta lentamente inceppando per ragioni naturali. Sin dalla sua morte nel 1953, infatti, il regno è governato dai suoi figli, in ordine discendente di data di nascita. Prima Saud (1953-64), poi Faisal (1964-75), poi Khalid (1975-82), infine Fahd fino al 2005. Il fondatore Ibn Saud ha avuto fino a quattro mogli contemporaneamente, e ventidue in totale, dando i natali fino a tre figli nello stesso anno, che in totale dovrebbero essere – secondo alcuni analisti israeliani – circa quarantaquattro. Quando lo scorso 1 agosto re Fahd fu dichiarato ufficialmente morto, aveva ottantaquattro anni. Dopo di lui, ora è in carica Abdallah, nato nel 1923. Dopo c’è l’ottantaduenne Sultan – peraltro appena operato di cancro allo stomaco e assai malridotto – nato nel 1924. Dopo ancora, potrebbero esserci una serie di regni cortissimi, oppure il salto nel buio dell’avvento della generazione dei nipoti del fondatore. Quale discendenza? Qui si potrebbe aprire una competizione perfino tra i superstiti dell’importantissimo e finora solidale clan dei Sudairi (i figli di Sudairi, la moglie preferita di Ibn Saud: l’appena morto Fahd, e i superstiti Sultan, erede al trono, Nayef, ministro dell’Interno nato nel 1933, e il principe Salman, Governatore di Riad, nato nel 1936), che gareggerebbero senza esclusione di colpi per imporre i propri pargoli.
Conscio di questa situazione, lo stesso re Abdallah, sin da quando negli ultimi anni di Fahd era stato nominato reggente, aveva cercato di allargare le basi dello stato, introducendo alcune timide riforme e iniziando un dialogo con gli sciiti, che ora hanno solo quattro membri su centocinquanta di quel Consiglio consultivo che assiste il monarca assoluto. Ma anche qui, gli effetti della guerra in Iraq si sono fatti sentire, rinfocolando l’odio degli integralisti sunniti contro i “rafida” (in arabo “apostata”) sciiti, per la loro alleanza con gli Usa in Iraq. Durante l’assedio di Falluja, nel dicembre del 2004, nei siti integralisti sunniti si sono spesso viste immagini dell’Ayatollah Sistani accanto a carri armati Usa dai cui cannoni pendevano rosari cristiani. Bloccando così il dialogo e l’operazione di rinnovamento, e polarizzando sia i sunniti sia gli sciiti, che oggi magari possono essere tentati da una radicalizzazione.
Come se ne esce? Molto dipenderà dagli Usa, che dopo l’11 settembre avevano deciso di far saltare il longevo patto del Quincey – l’incrociatore Usa dove, il 14 febbraio 1945, Roosevelt aveva garantito a Ibn Saud la stabilità della sua monarchia in cambio del suo petrolio – e ora paiono interdetti e intimoriti dal trarne tutte le conseguenze. Molto dipenderà dalla soggettiva decisione dei singoli paesi e dalla coesione delle loro elite interne. Staranno insieme per fare muro con l’Iran nucleare di Ahmadinejad, oppure crolleranno indeboliti dalle divisioni interne? In questo senso la riapertura, da parte degli Emirati arabi uniti, della disputa mai sanata sui confini con l’Arabia Saudita non promette nulla di buono: nell’edizione 2006 dell’atlante ufficiale degli emirati, contrariamente a quella del 2005, il loro territorio arriva fino al Qatar, assimilando pezzi controllati dal regno saudita sin dal 1974. Si tratta di un inquietante presagio di frizioni future. Che sono amplificate dalla nuova irresolutezza Usa sulla direzione da prendere di fronte al nuovo Medio Oriente evocato con la guerra in Iraq. E se a queste si sommerà una spinta sempre più forte degli sciiti del Golfo, potrebbero essere guai seri per la stabilità dell’area. E dunque per tutti.