Sul Corriere della sera di domenica scorsa Alfonso Berardinelli ha replicato a un articolo di Aldo Grasso, offrendo involontariamente un’impietosa radiografia del mondo intellettuale italiano. Il succo della polemica è presto detto: qualche giorno fa, sul blog Nazione indiana (www.nazioneindiana.com), alcuni raffinati intellettuali di sinistra accusano Berardinelli di essersi venduto l’anima, almeno da quando ha preso a scrivere per il Foglio; sabato Aldo Grasso lo difende a modo suo, sostenendo che Berardinelli è sempre “lo stesso di Quaderni piacentini, lo stesso di Linea d’Ombra, lo stesso di Diario: il tono apodittico, il ditino alzato, il bigottismo della scelta di campo”; infine Berardinelli afferma che Grasso, con tono apodittico e ditino alzato, vorrebbe far credere al lettore “che da Quaderni piacentini (1962-1984) a Linea d’ombra (1983-1996) a Diario (1985-1993) non sia cambiato niente per Piergiorgio Bellocchio, per Fofi, per me e per innumerevoli altri”. E già qui saremmo tentati di interromperlo, osservando che la questione non è se da allora non sia cambiato nulla per loro. La questione – semmai – è che non sono cambiati loro. Per dirla con le loro stesse parole: il problema non è se siano o meno sempre gli stessi, il problema è per l’appunto che sono sempre gli stessi, indipendentemente dalle sorti delle loro anime.
“Pensa che su Quaderni piacentini – prosegue Berardinelli – oltre a Fortini, Cases, Timpanaro, Giudici, Jervis, Mengaldo, Salvati, hanno scritto Gad Lerner, Marcello Flores, Gianni Riotta, Pierluigi Battista. Non hai appreso, caro Grasso, che negli ultimi tre decenni ci sono stati mutamenti cosiddetti epocali in tutti i campi, dalla politica alla tecnologia? Sarei il solo ad essere rimasto identico come un diamante?”. Giustissima osservazione. E l’elenco degli intellettuali che animano il nostro dibattito culturale da tre decenni a questa parte ci pare enormemente significativo. Complimenti sinceri a quell’autentico genio, sia un caporedattore o un semplice grafico, che ha affiancato all’articolo la pubblicità dell’ultima fatica letteraria di Umberto Eco: A passo di gambero – guerre calde e populismo mediatico (“Il mondo di Bush e l’Italia di Berlusconi: cinque anni di regresso” – tuona la manchette). A giudicare da titolo e sottotitolo, peraltro, una fatica letteraria assai poco faticosa, incentrata come sembra sull’antico ritornello del dove andremo a finire di questo passo, signora mia, con Berlusconi e la sua televisione così volgare, con Bush e le sue crociate così insensate. Certamente anche Umberto Eco è rimasto sempre lo stesso, dai tempi del Gruppo 63, con Furio Colombo e tanti altri. Mentre il resto del mondo, come giustamente osserva Berardinelli, viveva cambiamenti cosiddetti epocali.
Da queste considerazioni all’ennesima riedizione del dibattito sulla perdita di funzione degli intellettuali, ce ne rendiamo conto, il passo è breve. Siamo certi che il filone sarà ben presto ampiamente sviluppato, ma noi preferiremmo tenercene alla larga, perché pensiamo che la funzione degli intellettuali cambi con il cambiare dei tempi e con i famosi mutamenti epocali che continuamente sconvolgono il mondo, dalla crisi del V secolo in avanti.
Bisogna ammettere invece che una discussione sulla senescenza dei nostri intellettuali – quegli stessi che da almeno tre decenni continuano a litigare o rappacificarsi sulle prime pagine di giornali e riviste culturali, impermeabili ai famosi mutamenti epocali da loro tante volte evocati ma di cui raramente discutono – sarebbe comunque più stimolante della solita lagna ipocrita sullo scarso ricambio della nostra classe dirigente politica. Nella tv abbiamo ancora Mike Bongiorno e Pippo Baudo, sulle pagine economiche si parla ancora di Agnelli e Pirelli come ai primi del secolo, per non dire delle cattedre universitarie. Dunque che senso ha prendersela con Prodi o Berlusconi, Piero Fassino o Gianfranco Fini? Il vecchio, vecchissimo “largo ai giovani” è da sempre in Italia una bandiera stracciona, che esprime ansia di cooptazione più che anelito al cambiamento. Dunque nessuno si stracci le vesti. Restino pure tutti ai loro posti. Ci si domandi, però, se tutto questo non abbia qualcosa a che vedere con il tanto dibattuto declino del paese.
Prendete la stessa copia del Corriere della sera di domenica scorsa, ancora nella sezione cultura. Nella pagina successiva a quella dell’alto dibattito Berardinelli-Grasso troverete un articolo in cui già si anticipa la futura polemica che inevitabilmente seguirà l’uscita su Nuova storia contemporanea (la rivista dei cosiddetti “defeliciani di destra”, diretta da Francesco Perfetti) di un intervento di Sergio Romano, altra autorevole firma dello stesso giornale. Il titolo del pezzo dice già tutto: “Resistenza, passato che non passa”. Proprio così, siamo ancora lì, inchiodati a un dibattito che dura almeno dal ’92, cui peraltro l’ambasciatore Romano non sembra portare significative novità (l’antifascismo come ideologia della Repubblica, la legittimazione del Pci, il consolidarsi del mito resistenziale dopo la caduta del governo Tambroni e via allegramente dibattendo). Anche qui, il colpo d’occhio dice più di ogni analisi. Basta sfogliare il giornale tenendo lo sguardo al piè di pagina. In prima, Berardinelli: “Tutto cambia nel mondo, me compreso”. In terza, Romano: “Resistenza, passato che non passa”. Si direbbe che i mutamenti epocali che hanno sconvolto il mondo da tre decenni a questa parte ancora non abbiano lambito le pagine dei nostri quotidiani, tantomeno i pensieri dei nostri immutabili e litigiosissimi intellettuali.
Non c’è bisogno di spalancare quelle pagine a giovani vecchi ansiosi di partecipare alla festa, portando il proprio contributo al dibattito sulla crisi degli intellettuali o sulla fine delle mezze stagioni certamente causata dal mancato rispetto dei protocolli di Kyoto. Intellettuali non più giovanissimi, su altre pagine, hanno invece cominciato a spiegare come il declino economico del paese dipenda innanzi tutto dall’obsolescenza della sua struttura produttiva. E in particolare da una specializzazione produttiva che poggia ancora sul tessile e sull’alimentare come cinquant’anni fa. La rivoluzione tecnologica qui è passata come acqua fresca. E il problema della nostra arcaica specializzazione produttiva, cui non sono certo estranee le grandi famiglie che da sempre controllano le principali imprese del paese (e i giornali, e le case editrici), si rispecchia perfettamente nell’obsolescenza e nella carente specializzazione del nostro dibattito culturale, ripiegato su se stesso e in preda a regolamenti di conti che risalgono almeno a tre decenni or sono. Un dibattito che si dimostra pertanto strutturalmente incapace di guardare al mondo e ai suoi continui e sempre “epocali” cambiamenti – in tutti i campi, dalla politica alla tecnologia – se non attraverso la stanca elegia di un passato in cui la funzione dei nostri intellettuali appariva meno incerta, o attraverso la vuota invettiva contro un presente che ha l’unica colpa di andare avanti, incurante dei loro strali.