Indizi. Una metropoli, disorganico combo di sovraffollamento, traffico, cemento e vetro – Detroit, nella fattispecie. Una frase, “Omicidio della Dalia Nera”, un titolo di cronaca capace di scatenare suggestioni morbose e di grande letteratura; cinque ragazzi decisi a riflettere in musica tutto questo più le proprie personali ossessioni. Potrebbe la soluzione del caso essere differente da un sound cupo, introverso e persino involuto?
Volendo, potrebbe essere una soluzione qualsiasi: ma ai The Black Dahlia Murder interessa (e piace) solo il lato oscuro della Forza. Quando si formano, nel gennaio 2001, non è per tessere raffinati ricami o distribuire carezze: Trevor Strnad (voce), Brian Eschbach e John Kempainen (chitarre), David Lock (basso) e Cory Grady (batteria) coniugano il death/black di matrice scandinava con il grezzo sound urbano tipicamente Usa; se la temperatura salisse di appena qualche grado, Detroit diventerebbe New Orleans – ma gli Eyehategod rimangono, al momento, uno standard a sé.
Compatti e organizzati, i TBDM producono il demo d’esordio con l’etichetta di loro proprietà, la Lovelost Records (altro indizio ben scelto): “What A Horrible Night To Have A Curse” (’01) è seguito in breve dall’ep “A Cold-Blooded Epitaph” (’02) e dalla debita serie di torride esibizioni live. Il “crimine” non passa inosservato e paga: la Metal Blade Records li mette sotto contratto per il primo full-lenght. “Unhallowed” esce nel 2003 segnalando i TBDM a una platea più vasta; nel contempo, il lavoro fissa da subito pregi e limiti della band, primo tra tutti il monolitismo, inteso come ossessiva ripetizione della struttura sonora, indifferente al sempre possibile effetto “questi-brani-si-assomigliano-tutti”. Per contro, l’energia e l’intenzione sembrano non incanalarsi verso l’assolo o il crescendo liberatori, bensì avvolgersi a spirale su se stessi: introversi e involuti come una giornata di pioggia, bloccati nel traffico, respirando aria seriamente inquinata.
Il messaggio è “prendere o lasciare” e il recente “Miasma” (’05) lo conferma a chiare note: la voce conosce sì due tonalità, ma sono il gutturale e lo strozzato; le chitarre di rado abbelliscono il muro con assolo/decorazioni fuori schema; la sezione ritmica pulsa alla massima velocità, senza sosta, senza uscita. L’intro “Built For Sin”, la successiva “I’m Charming” e la cupa “Flies” forniscono un lungo break d’apertura dal quale non c’é riscatto, men che meno nella conclusiva title-track. E’ indubbio che i TBDM rischiano la monotonia – anche i testi, al riguardo, potrebbero offrire ulteriori argomenti; ma rischiano soltanto, conducendo l’ascoltatore alla conclusione con la solidità di una locomotiva, senza annoiare e senza pretendere. Una giusta via di mezzo tra depressivi, insondabili abissi ed evolute ma troppo rarefatte preziosità preconfezionate; con la prospettiva sempre aperta di una maturazione i cui semi, in apparenza, sono già piantati. Magari cogliendo la medesima ispirazione che l’irrisolto omicidio di Elisabeth “Dalia Nera” Short suggerì a James Ellroy. Nel suo romanzo si può trovare questo passaggio: “Scattai giù dall’auto e gli saltai addosso, inseguito dalla musica di Stan Kenton. (…) Il balordo insultava me, mia madre e mio padre. Sentivo gli ululati delle sirene lacerarmi il cervello, sentivo il puzzo di carne marcia del magazzino. Il vecchio balordo implorava ‘per piacere’ ”. Un paio di chitarre ed è puro death metal.