In venti anni, nella Terza repubblica francese, il sistema elettorale cambiò per ben tre volte. La prima riforma fu nel 1876 e portò dallo scrutinio di lista su base dipartimentale all’uninominale di arrondissement. Le liste tornarono dall’ottobre del 1885 al febbraio 1889, per poi essere cancellate di nuovo a vantaggio dello scrutinio uninominale con base circoscrizionale che resse fino al 1919. Al netto dei tecnicismi (che qui non ci interessano) quanto quella Francia è simile all’Italia attuale?
Va detto che il pretesto per parlare della nostra pessima legge elettorale è sicuramente spericolato. E forse – lo diciamo subito – sbagliamo, perché in questo ha ragione il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini quando, scrivendo al Corriere della sera, invita a storicizzare i sistemi elettorali “in relazione al contesto politico in cui operano” e “in relazione al modo con cui i partiti utilizzano le potenzialità in essi contenute”. Le epoche, va da sé, sono diverse. E i cambiamenti da noi sono stati finora soltanto due, non tre: dal proporzionale al Mattarellum e poi ritorno al proporzionale temperato con sbarramenti vari e premi di maggioranza – diciamo così – creativamente articolati. Però – e inizia qui il paragone “spericolato” – sono identiche le motivazioni delle riforme francesi e di questa nostra revanche proporzionalistica.
Gli stop and go della République infatti avvennero certamente per ragioni di dottrina, ma soprattutto per opportunismo: lo scrutinio di lista era per tradizione un sistema “di sinistra” e i repubblicani lo sostenevano con forza per averne benefici nelle urne. L’uninominale di arrondissement, voluto tempo addietro – come sostiene lo studioso Odile Rudelle – da Luigi Napoleone per “addomesticare il suffragio universale”, era invece amato dai conservatori perché giudicato a loro più favorevole. Ebbene, i due schieramenti cambiarono le regole a proprio piacimento al solo scopo di primeggiare l’uno sull’altro, pur mantenendo tuttavia intatto un approccio estremamente formale (e comunque moderno per quell’epoca) alla libera consultazione popolare come base dell’organizzazione dei poteri pubblici.
Un po’ quanto è accaduto da noi qualche settimana fa: il centrodestra ha cambiato sistema per evidenti ragioni di convenienza, ma presentando la riforma come necessaria a salvaguardare la corretta rappresentanza e – dunque – il “governo giusto”. Con una differenza sostanziale, però: nella Francia repubblicana non c’era stato il referendum Segni, che magari avrebbe inchiodato Gambetta e i suoi oppositori al rispetto della volontà popolare, che in Francia – si sa – suscita sempre un sentimento piuttosto gagliardo.
Certo una cosa è chiara: in Italia nei primi anni ’90 lo strepitoso successo referendario del maggioritario va spiegato anche con il clima dell’epoca. Però voto fu e tutti tendono a dimenticare che la maggioranza degli italiani scelse inequivocabilmente di voltare pagina. Sorprende quindi che il presidente della Camera, uno che ci tiene alla propria immagine di garante delle regole, abbia messo con disinvoltura tra parentesi quella consultazione. Perché va bene assicurare il rispetto del regolamento parlamentare, va bene che la forma è sostanza, ma spesso la sostanza conta più della forma. E la sostanza è che la Cdl – e con essa il garante Casini – se ne è infischiata di quella volontà popolare espressa positivamente (maggioranza di “sì”), salvo poi riconoscerle un valore quasi costituente nel caso dei quesiti sulla procreazione assistita, quando – invece – si sono barattati gli astenuti (tutti) per maggioranza che vota “no”.
C’è poi la polpa della faccenda. Il maggioritario – si dice, più o meno – doveva garantire alcune cose: far durare i governi, renderli direttamente responsabili di fronte agli elettori (il famoso “contratto”), ridurre il numero dei partiti e isolare quelle che con un sostantivo molto leggiadro vengono definite “le ali”. Ebbene, quel sistema ha fallito: i governi durano ma non riescono a fare quello che dovrebbero e dunque i “contratti” – si badi, per ragioni di sistema e non per l’incapacità di chi li firma da Vespa – si trasformano in carta straccia. La frammentazione politica inoltre è aumentata e le estreme tengono sotto scopa i leader come, quanto e quando vogliono. Ora, andrebbe dimostrata una cosa: che il ritorno al proporzionale non ci farà ripiombare dritti dritti in pieno gioco dell’oca da prima Repubblica. I penta o quadri-partiti, i vari monocolori con appoggi esterni, i governi balneari e di transizione e così via facevano più degli attuali? E ancora: erano chiamati a rispondere direttamente – quei governi là – del loro sostanziale immobilismo? Fa sorridere dunque Marco Follini quando dichiara che il “contratto” non serve più, ma c’è bisogno invece di un programma serio: il “contratto”, se fatto bene, è un programma più serio di un programma serio. Quanto all’aumento di potere delle “ali” le cronache di questi giorni parlano da sole. E’ vero, col maggioritario i partiti sono aumentati, ma resta da verificare che l’aumento sia stato causato dal sistema elettorale o che invece sia avvenuto suo malgrado. Il proporzionale, “storicamente”, è o non è un sistema che produce frammentazione? E non si porti per favore il controesempio della Germania. Sono diversi la cultura politica, il contesto, la storia: per esprimere dubbi sul proporzionale ci pare del tutto legittimo utilizzare in questo caso l’approccio “storicista” usato da Casini per demolire il maggioritario.
Ma torniamo alla Francia della Terza repubblica. Per una strana ironia della storia, gli effetti di quelle vorticose riforme furono esattamente opposti alle intenzioni di chi le introdusse. Alle elezioni generali del 1871 vinsero i monarchici, con l’uninominale la spuntarono i repubblicani di Gambetta (1876, 1877 e 1881) e lo scrutinio di lista utilizzato per le elezioni generali del 1885 fu quello che permise la conquista della Francia al generale Boulanger. Insomma, ci sarebbe veramente da sorridere se anche stavolta – dopo più di un secolo e al di qua delle Alpi – la volontà popolare spiazzasse i dottor stranamore della Cdl. E qui finisce la vertigine storica.