Spesso un vizio dei campioni è quello di volersi scegliere il ruolo in cui giocare: più al centro, più arretrato, senza consegne tattiche stringenti. A volte il ruolo in questione non è quello sul campo, ma nell’immaginario del pubblico e della stampa. A Lawrence Dallaglio – rugbista inglese – è capitato in sorte quello del cattivo. Un metro e novantacinque, centoquindici chilogrammi, una mascella che sembra un parcheggio per limousine, un ego debordante e un carisma infinito. Insomma il villain perfetto. Qualche credito col destino: una sfortunata storia di droga alle spalle, che gli è costata i gradi di capitano della nazionale, oltre a un breve ostracismo, hanno completato il personaggio. Per quanti sforzi faccia, il buon Lawrence finisce sempre per essere nella posizione del guastafeste.
Come l’anno scorso, quando rovinò la partita d’addio dell’amico e rivale Martin Johnson, battendolo nella finale della Premiership inglese. Per questo quando lo scorso gennaio Dallaglio annunciò la sua disponibilità a un ritorno in nazionale, molti pensarono male. Un altro Martin, Corry, il nuovo capitano inglese, occupava in campo la stessa posizione di Dallaglio, quella di numero otto. Corry ricorda il rivale anche nella corporatura massiccia: un clone del Dallagio in forma, è stato detto. Perché dunque un ex capitano, campione del mondo, con oltre settanta caps al suo attivo, avrebbe dovuto tornare in nazionale a scaldare la panchina? Perché aveva ancora voglia di giocare ad alto livello, disse, per il resto si metteva a disposizione, era contento di essere nel gruppo. Vuole fregare il posto a Corry, destabilizzerà la squadra, pensarono i maligni.
Qui occorre una precisazione. Il capitano, in una squadra di rugby, è una cosa molto seria. Non porta alcun segno distintivo, sulla maglia o altrove, perché non ne ha bisogno. Il capitano è il primo nome che si scrive quando si compone la formazione, se non sei certo di poter essere titolare, non puoi essere il capitano. In circostanze normali, c’è un solo modo in cui il capitano può uscire dal campo prima della fine: con le gambe in avanti sdraiato su una barella. Un capitano che viene sostituito, smetterà presto di esserlo, l’elenco è lungo. Quando una squadra va male, prima paga il capitano, poi l’allenatore, poi tutti gli altri. Di conseguenza, per ragioni intuibili, gli ex capitani in campo sono rari, almeno a livello internazionale. Quando nella prima giornata del Sei nazioni Dallaglio rilevò Corry nei minuti finali, nessuno ci fece troppo caso, la partita era ampiamente decisa a favore degli inglesi. Non così a Edimburgo lo scorso 25 febbraio, con i bianchi della regina in difficoltà per merito di una sorprendente Scozia: la sostituzione del capitano nell’ultimo quarto d’ora era apparsa ai più come il tentativo di metterci una pezza, non certo un complimento alle qualità di leadership di Corry.
Con tempismo perfetto il calendario ha quindi proposto un confronto diretto tra i club dei due rivali, gli Wasps di Dallaglio e il Leicester di Corry. L’attesa della partita è stata tutta per lo scontro dei due numeri otto, capitani nei rispettivi club. Chi avesse vinto, si diceva, avrebbe guadagnato una maglia da titolare per “le crunch”, la partita contro la Francia in programma domenica prossima a Parigi. Ha vinto la squadra di Dallaglio – ancora una volta guastafeste – che si dice felice del risultato, ma si lamenta di come la stampa lo descrive. Certo lui vorrebbe giocare ma è contento di essere nel gruppo. Il suo impegno è massimo, non c’è dubbio. Ha grande stima di Corry, e Martin di lui. Ma non ci crede nessuno. Perché il ruolo in cui devi giocare te lo indica l’allenatore. Oppure te lo sceglie il destino.