Quale che sia l’esito del voto, nessuno può dubitare che dalle urne Ds e Forza Italia saranno confermati come primo e secondo partito del paese (verosimilmente in quest’ordine). Sono di gran lunga le maggiori forze politiche delle rispettive coalizioni e da oltre un decennio di quelle coalizioni determinano identità e fisionomia. Ma se molto si è discusso sui giornali delle difficoltà dei due poli e delle leadership di Silvio Berlusconi e Romano Prodi, assai minore attenzione è stata invece dedicata alla profonda crisi strategica in cui sembrano versare Forza Italia e Ds.
In apparenza i destini delle due formazioni non potrebbero essere più diversi: sicura e inappellabile sconfitta per il partito del premier, storica e solida vittoria per il partito guidato da Piero Fassino. Ma seppure in termini evidentemente diversi, all’indomani del 9 aprile a entrambi si porrà un identico, duplice problema: quello della successione e insieme della sopravvivenza.
L’intervista rilasciata a Repubblica dal ministro Pisanu su un tema costitutivo per l’intera Casa delle libertà, a proposito dei rapporti con la consulta islamica e dell’opportunità dell’insegnamento della religione musulmana nelle scuole, con il durissimo attacco all’ala teo-con guidata da Marcello Pera, non è che l’inizio di una lunga guerra di posizione. La caduta del re si avvicina e i generali cominciano a schierare le proprie truppe, presentendo l’inizio delle future lotte di successione. Un lungo periodo di discordie civili nell’intera coalizione che avrà per epicentro Forza Italia. Giulio Tremonti, Roberto Formigoni e Claudio Scajola, per fare solo tre nomi, non resteranno a guardare ancora a lungo. E certo non resteranno a guardare nemmeno gli alleati, a cominciare dalla Lega, che con l’annunciata uscita dalla maggioranza in caso di sconfitta si conferma intenzionata a giocare un ruolo in questa partita, gettando subito sul tavolo tutte le fiche di cui dispone.
Le dimissioni prima di Calderoli e poi di Storace, seguite dalle pessime performance televisive di Berlusconi prima con Diliberto e poi con Lucia Annunziata – in quella trasmissione da cui Fini, non meno duramente incalzato, era uscito trionfante appena poche settimane prima – sembrano dimostrare come il Cavaliere sia ormai prossimo al crollo psicologico prima che politico. Partito in condizioni disperate, bisogna riconoscerlo, Berlusconi si è battuto come un leone e praticamente da solo, ma forse anche per questo è arrivato all’ultimo miglio decisamente spompato.
Piero Fassino sembrerebbe invece godere di ottima forma e di un più che giustificato buonumore. Ma la crisi strategica dei Ds non è meno seria di quella in cui si trova Forza Italia. La composizione delle liste ne è solo l’ultima dimostrazione. Il riflesso burocratico e autoconservativo ha prodotto un elenco di nomi – salvo rarissime eccezioni – che risponde esclusivamente a logiche interne, che non mostra la minima apertura alla società cui dovrebbe rivolgersi, tanto meno alcuna volontà di rinnovamento. Ma soprattutto – ciò che è più grave – non mostra nessuna coerenza con l’obiettivo ripetutamente proclamato di dare vita a un nuovo partito, riformista o democratico che dir si voglia.
Se quello che probabilmente è oggi il primo partito italiano soffre così tanto la concorrenza di un neonato partito di opinione come la Rosa nel Pugno, cosa vuol dire questo se non che la crisi strategica – come sempre accade – va già trasformandosi in debolezza tattica e politica? Complice il ritorno della legge proporzionale, i Ds si trovano così al centro di una coalizione in cui la logica del reciproco assedio sembra ruotare tutta attorno alla Quercia, costretta a subire l’attivismo rutelliano nel dialogo con le imprese e con le gerarchie (peraltro tradotto in una composizione delle liste assai più abile e accorta), a guardarsi dalla sfida per l’egemonia di un Bertinotti certo molto indebolito dallo sforzo compiuto nel breve periodo, ma assai più competitivo nel lungo, a contenere le occasionali scorrerie della sinistra radicale di Diliberto e Pecoraro, infine a sopportare più o meno di buon grado anche le continue punzecchiature della Rosa nel Pugno sul tema della laicità. Non c’è bisogno di avere studiato strategia militare al Pentagono per capire che la scelta dell’arrocco e della conservazione delle attuali posizioni non porterà fortuna ai Ds.
Anche al partito di Piero Fassino si pone infatti il duplice problema della sopravvivenza e della successione. Il progetto del partito democratico tante volte annunciato, all’indomani del 9 aprile, dovrà infine essere affrontato. Fassino, D’Alema e Veltroni non potranno tenere a lungo le carte coperte. E’ realistico pensare che un nuovo congresso – l’ultimo – dovrà assegnare a un nuovo segretario il mandato di portare a compimento l’esperienza dei Democratici di sinistra nella fusione con la Margherita. E al momento, da entrambi i lati, le premesse non sono incoraggianti.
La crisi strategica di Forza Italia e Ds è dunque perfettamente speculare. E non casualmente, trattandosi dei due assi su cui fino a oggi si è incardinato il fragile bipolarismo italiano. Entrambi, per un breve momento, hanno tentato di dar vita a partiti più larghi e rappresentativi – il partito riformista a lungo osteggiato da Rutelli e il partito unico del centrodestra con cui la Cdl tentò di replicare all’iniziativa ulivista – per poi ritrovarsi entrambi nell’angolo, fino all’approvazione della legge proporzionale che ha reso quelle aggregazioni ancora più difficili.
Che cosa l’Italia debba attendersi dal ridimensionamento di Ds e Forza Italia è però sotto gli occhi di tutti. Lo abbiamo visto nelle vicende economiche, giudiziarie e politiche dell’anno appena trascorso, con le relative campagne di stampa che hanno avuto proprio in Forza Italia e Ds – al di là delle rispettive, e assai diverse, responsabilità – il proprio bersaglio privilegiato. Dalla lotta per il controllo delle banche alle torbide manovre tutt’ora in corso all’interno degli apparati dello stato. Il clima da anni settanta che è tornato a diffondersi nel paese è figlio innanzi tutto della fragilità della politica, a cominciare dalla debolezza dei due maggiori partiti.
Il valore della nuova classe dirigente che dal 9 aprile sarà chiamata alla guida del paese si misurerà dunque sulla sua capacità di ricostituire soggetti politici solidi abbastanza da resistere ai ricatti delle diverse cordate e corporazioni. Ma se invece, malauguratamente, dovesse prevalere l’illusione di poter giocare di sponda con l’una o con l’altra di esse per guadagnare posizioni di forza all’interno del proprio schieramento, si può scommettere che le nubi di questa avvelenata campagna elettorale non saranno che il preludio a una lunga, lunghissima notte.