Il “tardo album solista del membro di una storica band” è un genere doppiamente negletto. Ai dubbi sulla capacità del musicista di sostenere il ruolo di uomo solo al comando, si aggiunge infatti la scarsa fiducia nella vena creativa di artisti con oltre trent’anni di carriera alle spalle. E’ quindi difficile dire col giusto distacco emotivo che “On an Island”, il recente lavoro di David Gilmour, è davvero un buon disco.
Il chitarrista dei Pink Floyd ha da poche settimane festeggiato i suoi sessant’anni con l’uscita del terzo album solista (l’ultimo, “About Face”, era datato 1984): dieci tracce eleganti e appassionate, nelle quali sfoggia un eccellente stato di forma sia strumentistico che vocale. Niente dello sperimentalismo del periodo d’oro, ma un riuscito intreccio di melodie suggestive e di atmosfere sognanti, con il suono della leggendaria Stratocaster a fungere da ideale fil rouge e con una serie di prestigiose collaborazioni, su tutte quella del tastierista della formazione originale, Richard Wright.
Il sipario si apre, come nei due album dei Pink Floyd post-Roger Waters, con uno strumentale: come “Signs of Life” e “Cluster One”, “Castellorizon” è introdotto da una sezione quasi rumoristica, che sfocia in un assolo dagli accenti epici su un tappeto di archi. L’orchestrazione di Zbigniew Preisner (già autore di colonne sonore per Kieslowski) viene utilizzata in altri momenti dell’album in maniera spesso originale. In “This Heaven”, gustoso compendio blues, la chitarra viene sostenuta dall’orchestra creando un contrasto molto particolare, specie in un clima alla Stevie Ray Vaughan. In generale, uno dei punti di forza di “On an Island” è la cura negli arrangiamenti, la scelta degli impasti sonori. Un esempio è la malinconica “A Pocketful of Stones” (involontaria citazione di “A Saucerful of Secrets”?), probabilmente il vertice dell’album: la costruzione del pezzo è impeccabile, col suo continuo dialogo fra pianoforte, orchestra e chitarra.
Le dolenti note arrivano quando Gilmour non ha chiaro quello che vuole dai propri brani. Per esempio, nello strumentale “Red sky at night” si cimenta al sassofono senza incidere, mentre “Take a breath” vorrebbe essere aggressiva ma risulta una tigre di carta, con i suoi deboli cori e il suo fiacco assolo di pedal steel. Inoltre, i testi – da sempre suo punto debole – non entusiasmano. La volonterosa consorte Polly Samson fa del suo meglio per coadiuvarlo, ma il risultato è una serie di quadretti un po’ manieristi, fra notti stellate, fiumi che scorrono e tramonti che ammaliano.
Nonostante i passaggi a vuoto, il disco però funziona. Il suo carattere disteso sembra mandare l’ascoltatore nel pieno di “Meddle” o “Obscured by Clouds”, lavori ritenuti minori (specie il secondo) ma fondamentali per quella felice sintesi di vena melodica e innovazione che sarà il successivo “The dark side of the Moon”. Lo stesso Gilmour dichiarò anni fa che “Meddle è l’inizio del percorso che porta ai Pink Floyd”: e la title track ne sembra un’immediata conseguenza, col suo incedere tranquillo e coi controcanti di David Crosby e Graham Nash a ricordare gli analoghi di Wright e Waters. Non c’è alcuna concessione alle mode musicali, per cui se un album scende sotto una certa percentuale di campionamenti, è “vecchio”. David Gilmour è “vecchio” ed è consapevole di esserlo, ma non gli importa. Riconosce di non avere più né fisico né età per lanciarsi in cavalcate psichedeliche e usa la sua sapienza chitarristica per produrre un album che suona molto più “Pink Floyd” di quanto non lo avessero fatto “A momentary lapse of reason” e “The division bell”. E che (cosa non trascurabile) sta in piedi da solo. “On an island” non inventerà un genere nuovo o non infiammerà i cuori del pubblico, ma è un lavoro di ottima fattura e godibile non solo dai fan della prima ora. Anche perché non si vive di soli dischi per darsi la carica il lunedì mattina.