Silvio Berlusconi si appresta a chiudere la sua parabola politica così come l’ha cominciata: secondo l’unico modulo di gioco che conosce e che considera valido per il Milan, per Mediaset e per la Casa delle libertà. Oramai è chiaro perfino a Fini e Casini, infatti, cosa intendesse il Cavaliere per “attacco a tre punte”. Immemori dell’esperienza di tanti allenatori rossoneri, l’illusione di avere strappato al premier la tanto sospirata collegialità si è dimostrata per An e Udc l’ultimo e il più esiziale di una lunga catena di errori. Dopo avere messo a tacere i recalcitranti alleati, in riga Montezemolo e il Sole24ore, fuori dal vertice di Confindustria l’odiato Della Valle – e dopo avere stretto la morsa su televisioni, giornali e settimanali di sua proprietà – il Cavaliere ha deciso di giocare il tutto per tutto, drammatizzando il voto del 9 aprile fino al parossismo. E di conseguenza, polarizzandolo: o lui o Prodi, o Forza Italia o l’Ulivo. Chi credeva bastasse reintrodurre il proporzionale per rimettere in moto complicate strategie neocentriste e scassare il bipolarismo, evidentemente, ha sbagliato i suoi i conti.
Prima di ogni altra considerazione, però, bisognerebbe togliersi il cappello dinanzi a un simile combattente. Chiunque altro, al posto di Berlusconi, da tempo avrebbe pensato innanzi tutto a negoziare un’onorevole via d’uscita. Ma come è sua abitudine ogni volta che decide di lanciarsi alla carica allontanando da sé più cauti consiglieri, preparatori tecnici ed esperti di ogni tipo, questo non significa che il Cavaliere rampante non abbia già messo in conto la certezza della caduta. Se ha deciso di raddoppiare la posta è solo perché consapevole che in questo modo egli in realtà non può perdere. Certo sarà sconfitto alle elezioni, ma della futura opposizione resterà lui l’unico e autentico dominus. E potrà dunque essere lui a decidere quando e come uscire davvero di scena.
Il berlusconismo, comunque, è già finito. E’ durato dodici anni, un tempo lunghissimo, un’intera fase storica. E’ Silvio Berlusconi l’uomo che dal 1994 al 2006 ha dominato la scena politica, l’immaginario collettivo, il dibattito pubblico. Come dice giustamente il protagonista del nuovo film di Nanni Moretti, nel tentativo di mettere le mani avanti e già presentendo la difficoltà dell’impresa: fare un film su Berlusconi vorrebbe dire fare un film sull’Italia di questi anni. Con l’uscita di scena del caimano, tra qualche tempo, quel film forse diventerà davvero possibile.
Con queste elezioni si chiude la lunga fase iniziata nel ’92 con il collasso del sistema politico e degli assetti economici e sociali su cui si era retta la prima repubblica. La rivoluzione promessa da Forza Italia, puntando sul blocco sociale delle partite iva e di un certo ceto imprenditoriale – la vera base del famoso Asse del Nord – si è manifestata quasi esclusivamente nella rappresentazione di uno scontro politico fittizio. Il nuovo governo del centrosinistra riparte dunque da dove aveva lasciato, prima con il governo Ciampi del ’93, sia pure in forma embrionale e quasi clandestina, poi con il governo Prodi del ’96, in forma politicamente più limpida ma non meno precaria. La costruzione di un’alleanza più solida e coerente con i propri obiettivi di governo ha richiesto troppo tempo, ma oggi è finalmente un dato acquisito. Il nuovo partito che dalla lista unitaria tra Ds e Margherita prenderà forma ne rappresenta l’inevitabile e necessario coronamento. Mentre l’annuncio berlusconiano di voler procedere verso il partito unico dei moderati, a pochi giorni dal voto, non mostra analoga credibilità. Tanto meno in un centrodestra in cui torna a farsi assordante il coro mistico sulla difesa dei valori e la riscoperta delle radici cristiane.
Berlusconi, l’uomo della televisione commerciale, emerso come il campione dell’edonismo consumista, dell’individualismo e della modernizzazione – non a caso i valori di quel blocco sociale che intendeva guidare da Palazzo Chigi – difficilmente potrà trovare posto in una simile rappresentazione. Ma la debolezza culturale e politica di tutti i partiti emerge innanzi tutto dalla loro permeabilità a simili pseudo-discorsi. Basta osservare l’ansia di dirigenti e commentatori che a mo’ di tanti Marcello Pera a rovescio si interrogano sul rischio che la sinistra smarrisca il valore della laicità, perda la propria identità, dimentichi le proprie radici. Ed ecco tornare, persino a sinistra, la retorica dei valori. Questa sì segno di un autentico smarrimento e di un atteggiamento pericolosamente subalterno alle mode culturali del momento.
Di fronte a tali contraddizioni, la costruzione di un nuovo partito riformista, grande abbastanza da ritrovare in sé i necessari canali di comunicazione con la società italiana – non mediati da un simile dibattito pubblico – è l’unica via d’uscita rimasta. La puntuale replica del Cavaliere sul partito unico dei moderati dimostra il valore sistemico del progetto ulivista. Votare la lista unitaria significa pertanto votare anche per un diverso assetto del centrodestra: per ristabilire il bipolarismo incardinandolo su due grandi partiti, uscendo finalmente dalla lunga stagione delle anomalie berlusconiane e dei ricatti di tante, non meno caimanesche oligarchie economiche e intellettuali.