Al momento in cui scrivo, so soltanto che la quattordicesima legislatura è finita, le urne sono ancora chiuse, e lo spoglio non è ancora iniziato. Invece di esercitare le mie arti divinatorie sull’esito elettorale, preferisco tenermi agli unici dati certi a mia disposizione. Poco per fondarci sopra una riflessione politica sul significato di questo voto, ma abbastanza per una piccola considerazione filosofica sul concetto di fine, e su quel che viene dopo. Che non è una roba semplice, poiché non è semplice dire quando una cosa finisce.
In verità, la filosofia si è a lungo esercitata anzitutto sul problema opposto, quello del cominciamento. Solo in questo secolo, e specialmente nella seconda metà, si è scoperta ossessionata dalla fine. E che la fine sia diventata un’ossessione è dipeso in buona parte da ciò, che la filosofia ha preso per lo più due strade, nessuna delle quali si è rivelata agevole. Per un verso, infatti, ha ritenuto che nella nostra epoca qualcosa fosse finito, ma senza riuscire a capire cosa mai ci sia, dopo quella fine: chiamare postmoderno il proprio tempo significa non avere idee chiare in proposito.
Per altro verso, ha creduto di doverla fare finita con questo o con quello, senza però riuscirvi mai veramente, sfinendosi così tra mere sopravvivenze, spettri e cattive infinità. In effetti, prendendo la prima strada, il “dopo la fine” appare alquanto indeterminato; imboccando la seconda, sembra che al “dopo” non si arrivi mai.
Il pensiero della fine è infatti un pensiero del “dopo”. E dopotutto, la filosofia non è che il proprio tempo appreso in pensieri, lo sguardo in ciò che è: il “dopo” non c’è, e dunque alla filosofia non le riesce di pensarlo. Così è dal tempo in cui la filosofia è nata: ricordate la molto istruttiva storiella di Achille e la Tartaruga, che Zenone amava raccontare ai suoi esterrefatti discepoli? In una corsa, Achille piè veloce, cioè l’uomo presuntuoso e inesperto del mondo, concede un certo vantaggio alla Tartaruga, ossia: il tempo e l’esperienza sono sempre in vantaggio su di noi. Achille confida di raggiungerla e superarla in men che non si dica, poiché ognuno di noi comincia la sua corsa convinto di farcela, ma ogni volta che il prode eroe avrà colmato la distanza che lo separa dalla Tartaruga, mostrando così di imparare qualcosa dall’esperienza, questa avrà percorso un nuovo tratto, per quanto piccolo, di strada, mettendogli innanzi il carattere sempre aperto dell’esperienza e l’impossibilità di avere davvero tutto imparato da essa. Certo, noi tutti sappiamo che Achille può di sicuro superare e supera effettivamente ogni volta, ad ogni corsa, la lenta Tartaruga: non ci lasciamo mica abbindolare dalle chiacchiere di un filosofo (cioè: staremmo fritti se agissimo solo dopo che il pensiero è sicuro del fatto suo). Quel che però non possiamo, è sorprendere sul fatto il “punto” in cui ciò avvenga, il punto di svolta dell’esperienza: quel punto in cui per esempio il giovane si scopre adulto, il figlio padre, e un paese volta pagina. Solo dopo che Achille avrà superato la Tartaruga saprà che l’avrà superata, non prima. Si volterà indietro e scoprirà di essere cambiato, scoprendo pure che non è precisamente in virtù di una teoria del cambiamento che qualcosa cambia davvero.
Quello di Zenone è conosciuto come un paradosso. E in effetti lo è: perciò è istruttivo. Ma paradossale è in generale l’impresa di voler sapere prima quel che accadrà dopo. Certo, noi lo sappiamo sempre: lo sappiamo abbastanza per avere al mattino, di quel che accadrà in giornata, un’idea sufficiente a farci compiere gli atti necessari per prepararci ad essa. E lo sappiamo con tutta la certezza di cui è capace la scienza, la cui potenza predittiva si estende molto più in là delle nostre stesse vite. Ma come sappiamo di saperlo? Uno scienziato che assistesse sul ciglio della strada alla corsa tra Achille e la Tartaruga, armato di penna e taccuino, potrebbe certo stabilire quando Achille si sarà lasciata la Tartaruga alle spalle, posto però che gli siano note tutta una serie di cose, e soprattutto che in ciò che è prima dell’esito della corsa sia contenuto l’esito stesso. Ma se vi è contenuto, che razza di dopo è?
Quando si arriva a questo punto, i filosofi aggrottano le sopracciglia e cominciano a disquisire della natura del “dopo”. Dicono ad esempio: è quel che ci serve perché il prima diventi un prima, benché lo diventi dopo (a volte anche i filosofi parlano in parabole). Noialtri, uomini del senso comune così come scienziati, lasciamo perdere volentieri simili insensatezze. Tiriamo linee, stabiliamo punti di partenze e di arrivo, inizi e fini, proprio per non lasciarci irretire da esse. Sappiamo quando si diventa maggiorenni per la legge, anche se in verità sospettiamo che non sarà precisamente a mezzanotte del diciottesimo compleanno che le Cenerentole si sveglieranno dall’adolescenza. Allo stesso modo, sappiamo quando un governo non è più in carica, ma anche in questo caso sospettiamo che non è con il passaggio del campanello tra il vecchio e il nuovo inquilino di Palazzo Chigi che l’Italia, d’incanto e tutta insieme, volterà pagina. Il che non significhi che non possa e non debba. I paradossi di Zenone si possono risolvere. Solo che, se ci saremo riusciti, lo sapremo dopo.