La scorsa settimana abbiamo scelto come foto di copertina il sorriso enigmatico di Robert De Niro nell’ultima scena di C’era una volta in America. Il titolo dell’editoriale che a quella foto si accompagnava era: “La grande occasione”. Parlavamo della grande occasione mancata ai tempi della bicamerale, che a nostro avviso si ripresentava adesso, in condizioni forse ancora più difficili. Nel film, quel sorriso misterioso lascia lo spettatore con la domanda se tutto ciò che ha visto sia una lunga catena di ricordi e malinconiche occasioni perdute, oppure una visione indotta dalle droghe in una mente sconvolta, o ancora una forma di allucinata chiaroveggenza che trasforma il protagonista dell’intera epopea nel suo unico (e impotente) spettatore. Quel sorriso ci sembrava pertanto il modo migliore di rappresentare l’amara ironia che ha caratterizzato l’esperienza del centrosinistra negli ultimi dodici anni della storia d’Italia.
Le vicende di questi giorni, con il ritiro della candidatura di Massimo D’Alema alla presidenza della Camera, rendono più stretta e caricano di ulteriore tensione questa fase difficile. Della lunga transizione dal ’92 a oggi, infatti, D’Alema è stato indubbiamente uno dei principali protagonisti. E se oggi il presidente dei Ds si sentisse domandare da un vecchio amico cosa abbia fatto in tutti questi anni, certo non potrebbe rispondere come Robert De Niro: “Sono andato a letto presto”.
Nella transizione dal Pci al Pds D’Alema si è scontrato prima con Achille Occhetto e poi con Walter Veltroni; nell’ultimo tentativo di ridisegnare un’architettura delle istituzioni condivisa e poi con l’ascesa al governo, si è scontrato con Romano Prodi e con una larga parte della sua stessa constituency (sia pure con alterne fortune, come mostra l’editoriale di Ezio Mauro che ripubblichiamo qui); da Palazzo Chigi ha giocato un ruolo significativo nella guerra tra Fiat e Mediobanca al tempo dell’opa Telecom di Colaninno, un peccato originale destinato a pesare assai più della matrice comunista (come si è visto chiaramente con il caso Unipol); infine, nell’ultima stagione dell’Ulivo e del partito democratico, D’Alema ha guidato il processo di ridefinizione del centrosinistra culminato nella vittoria elettorale del 9 aprile, mentre buona parte di quelle forze economiche che lo avevano contrastato in casa – su Telecom prima e sulle banche poi – si spingevano più audacemente sul terreno politico, tentando in ogni modo di far fallire il progetto di Prodi e dello stesso D’Alema attraverso l’affermazione delle leadership alternative di Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Solennemente incoronati futuri condottieri di quel nuovo partito che a nessuno dei due era riuscito di affossare – giova sempre ricordarlo – anche da Carlo De Benedetti.
Questa, in estrema sintesi, la biografia politica dell’uomo che venerdì sera ha deciso di “fare un passo indietro”. Una biografia politica che svela immediatamente il carattere conflittuale, irrisolto e insieme irriducibile di una grande tradizione che dal crollo del Pci a oggi D’Alema ha rappresentato, tentando di portarla alla guida del paese e sollevando potenti reazioni di rigetto.
Soffermarsi sulle ragioni e le forme di tali contrapposizioni significherebbe in un certo senso, parafrasando i classici, scrivere la storia d’Italia da un punto di vista monografico. Resta il fatto che il tentativo di portare a compimento dall’alto la lunga transizione si è dimostrato sistematicamente insufficiente a reggere l’urto delle reazioni suscitate nelle classi dirigenti diffuse, naturalmente ostili a ogni ipotesi di apertura – nelle istituzioni, nell’economia, nella società – a nuovi soggetti capaci di rigenerarne le fragili fondamenta.
La vicenda della mancata candidatura di D’Alema alla presidenza della Camera è forse – anche – un nuovo capitolo di questa tormentata biografia politica. Ma è un passaggio che si inserisce in un quadro preciso. Un quadro che si delinea chiaramente dopo l’arresto, la gogna mediatica o l’estromissione da ogni carica di tutti i protagonisti delle scalate del 2005, con l’ex governatore Fazio in esilio ad Alvito, con la sconfitta di tutti gli outsider e i newcomer. Un quadro che vede Romano Prodi presidente del Consiglio e Giuliano Amato presidente della Repubblica, Tommaso Padoa Schioppa al ministero dell’Economia, importanti postazioni di sottogoverno a esponenti dei Ds e della Margherita certo non ostili agli attuali vertici di Confindustria (personalità del calibro di Enrico Morando e Franco Bassanini, che nel pieno dello scontro non esitarono a ripetere che “un conto è costruire automobili e un conto è comprare e rivendere case”). Un quadro in cui la risicata maggioranza al Senato sarebbe probabilmente l’ultimo dei problemi, per la stabilità del governo, se è vero che la straordinaria tenuta elettorale di Berlusconi è stata resa possibile proprio dalla rivolta contro le oligarchie dominanti di una parte cospicua del paese. Quella rivolta simboleggiata dalla clamorosa contestazione guidata dal Cavaliere al convegno confindustriale di Vicenza proprio contro Montezemolo e Della Valle.
In questo quadro, dunque, Massimo D’Alema ha fatto benissimo a sottrarsi al tiro incrociato sulla presidenza della Camera. Ma farebbe male, a nostro avviso, a tenersi fuori dalla formazione del nuovo governo, lasciando ai vincitori delle guerre economico-giudiziarie della scorsa estate la soddisfazione di veder nascere un esecutivo debole, amputato di una parte significativa della sua constituency e perciò più facilmente controllabile. Sbaglierebbe D’Alema e sbaglierebbero i Ds, se pensassero di potersi salvare andando in cerca del vento per altre rotte, invece di contrastare un simile esito con la forza di una proposta razionale e con una diretta assunzione di responsabilità da parte del segretario e del presidente del principale partito della coalizione.
Nella formazione di governo che si sta delineando non mancano certo le voci rassicuranti per i mercati. Proprio per questo, però, Piero Fassino all’Economia rappresenterebbe – anche per il suo profilo e per la sua storia personale – un ragionevole compromesso. Con lui e con D’Alema agli Esteri, i Ds vedrebbero ristabilito un equilibrio che la vicenda delle cariche istituzionali sembrerebbe avere pregiudicato, garantendo così la stabilità dell’esecutivo. Quanto alla figura di Tommaso Padoa Schioppa, che con elegante eufemismo si usa definire essenziale a rassicurare i mercati, nulla vieta di attribuire a Fassino una sorta di ministero dell’Economia realissima – titolare delle quote delle diverse partecipazioni ancora in capo al governo – e al rassicurante Padoa Schioppa la gestione dei conti e del debito.
I capitani coraggiosi si addicono alle guerre di movimento. Nella lunga guerra di posizione che si è aperta in Italia dopo il fallimento dell’opa Unipol e la risicata vittoria elettorale dell’Unione servono generali capaci di controllare le proprie truppe e di sedersi al tavolo delle trattative senza bisogno di posarci sopra la pistola. Dopo l’estate dei furbetti e l’inverno dei maramaldi, auspichiamo la primavera delle persone responsabili, che abbiano l’autorità necessaria per ridisegnare i confini e stipulare gli accordi di pace. Aprendo così una nuova fase in cui siano i tanti signori della guerra che in questi anni hanno prosperato, di qui in avanti, ad andare a letto presto.