Il primo maggio, Festa del lavoro, uno i lavoratori può anche decidere di andarli a vedere in mostra. Al Palazzo Ducale di Genova è in corso “Tempo moderno – da Van Gogh a Warhol”, organizzata per il centenario della Cgil. E di lavoratori – dipinti, fotografati, filmati – ce ne sono davvero tanti, sebbene, lo diciamo subito, Germano Celant (il curatore) non abbia certo voluto mettere in piedi un work pride a metà strada tra il tripudio della nobiltà trontiana della classe operaia e la carezza giallo seppia alla memoria di un mondo duro che, almeno qui da noi, fortunatamente non c’è più. L’esibizione della maestranza sudata che forgia la materia la vedi, per carità, ma la mostra è innanzitutto un’occasione di riflessione più alta (quasi tremenda) sul lavoro, le macchine e l’automazione, attraverso le arti del Novecento, dalla pittura alla scultura, dal cinema alla musica. Paradossalmente però, si deve per prima cosa togliere di mezzo l’arte o, meglio, ridurla ad ancilla rationis. Sia chiaro, le opere esposte sono di livello altissimo. Si va dalla tradizione realista e naturalista all’iconografia socialista, dai futuristi ai cubisti; e poi le avanguardie, Leger, Schifano, i film di Loach e di Wenders, insomma un volo che dura un secolo intero sul tema del lavoro e sui suoi simboli, che a tutta prima potrebbe apparire dispersivo e, invece, delinea una traccia riconoscibilissima. Quel filo è la trasformazione della società e, naturalmente, dell’uomo. Trasformazione prepotente e corrosiva che ha piegato, rimodellato, ingabbiato l’umano nell’acciaio, nel tempo prima taylorizzato e poi soppresso, nella burocratizzazione del pensiero e del gesto.
Tanto che si sente aleggiare tra le immagini di mondine, camalli e manager incravattati dallo sguardo spento, lo spirito di Max Weber, il sociologo che aveva studiato a fondo le condizioni degli operai tedeschi a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, ma che in questo caso è lo spirito del Weber visionario che mette in guardia dagli esiti irrazionali della ragione strumentale. La “gabbia d’acciaio” – appunto – il mantello della tecnocrazia, la “pietrificazione meccanizzata”, il calco di gesso che ha formato la razionalità dell’Occidente e che rischia di abbracciarlo in una stretta mortale.
L’immagine guida di “Tempo moderno” è una foto grandangolare piuttosto angosciante di Edward Burtynsky, in cui centinaia di operai di un impianto di lavorazione polli in Cina sono immortalati mentre sezionano carne in un capannone immenso e sotto una luce lattiginosa, seriamente innaturale. Ecco, la gabbia è tutta in quella comunità di lavoratori fasciati in una mantellina di un rosa insolente e insincero. Ma è anche nelle facce senza anima dei manager di Inside Track di Momoyo Torimitzu che strisciano sui gomiti e si muovono con precisione algida nella traccia segnata; e sta pure negli occhi di Proletarie, le donne che Hans Baluschek fa uscire dalla fabbrica sotto il lucore incerto di un cielo di crepuscolo o di alba, fa lo stesso.
Questa angoscia, cruda, fuligginosa, opprimente è mediata dal senso estetico degli artisti esposti. Un senso estetico che partecipa, condivide, si fa empatia, ma che resta davanti alle forme di alienazione quasi sgomento: osserva e, incredulo, descrive. Anche Weber, che aveva anticipato con una sensibilità forse eccessiva poiché tardoromantica gli esiti del moderno, in fondo è un signore della vecchia aristocrazia colta di inizio Novecento che scandaglia dall’alto di una rupe l’affaccendarsi di una moltitudine trasformata in formiche industriose le quali hanno perduto il senso di quell’affaccendarsi.
A un militante di sinistra però “Tempo moderno” – che è una mostra voluta dalla Cgil, lo ricordiamo – dovrebbe suscitare, se possibile, un di più di riflessione. E, forse, di parziale ripensamento della propria metafora del mondo e di sviluppo della storia. E’ come se si accomodasse sul lettino dello psicanalista, quel militante, e si chiedesse cosa mai sia stato e cosa mai potrà ancora essere il sogno dell’assalto al cielo (che c’è stato, e potente), quella aspirazione alla fine del lavoro e alla riappropriazione del tempo, quella pulsione alla liberazione totale, assoluta, definitiva. Era sensata? Lo è? La storia di una parte della sinistra è stata affrancamento dal bisogno, riscatto in un Armageddon finale delle energie incatenate, ricomposizione dell’Eden qui e adesso; in una parola, redenzione. Ecco, questa ingenua e umanissima esigenza di superamento del limite è null’altro che un pensiero teologico rovesciato. Ne Il lavoro intellettuale come professione Weber evocava il canto della scolta idumea durante il periodo dell’esilio che si legge nell’oracolo di Isaia: “Sentinella! Quanto durerà ancora la notte? (…) Verrà il mattino, ma è ancora notte”. La mostra rischia di far aleggiare, oltre che lo spirito del pensatore tedesco, anche questo fraintendimento che ha percorso una parte del pensiero del Novecento e che risulta ormai inattuale nella sua carica di progetto salvifico: ritenere cioè che il giorno possa arrivare da un momento all’altro e che occorra vigilare e prepararsi ad accogliere il Nuovo Regno.
Non è questo la sinistra moderna e sbaglierebbe se cercasse nella storia del lavoro un orgoglio cipiglioso che la portasse, dopo la fine di quel sogno novecentesco, a rinchiudersi in un certezza ovattata di scoramento esteticamente appagante. Insomma, il primo maggio il militante dovrebbe stare molto attento. Sì, andare a vederli in mostra i lavoratori – dipinti, filmati, fotografati – evitando però di ricadere nei soliti tic: l’incanto dell’amarcord o, peggio ancora, il cuore percosso dal senso tragico dell’apocalisse post-moderna.