E pensare che c’è chi ancora non si convince a introdurre i normografi al Senato per uniformare caratteri e stili! Voi capite: la calligrafia non è un’arte; è una scienza, e non ci vuol nulla a risalire dal tratto al ritratto. Mi pare perciò che la battaglia procedurale fieramente ingaggiata sabato mattina in Senato, prima che l’ultima, decisiva votazione elevasse finalmente Franco Marini sullo scranno più alto di Palazzo Madama, non abbia affrontato tutti i nodi che un regolamento pieno di buchi ha finalmente portato all’attenzione dei neo-eletti senatori: con la penna, ad esempio, come ci regoliamo? Va bene qualunque stilografica? E con la dimensione dei caratteri? Il caso Scognamiglio avrebbe dovuto insegnare qualcosa già nel lontano 1994, quando Giovanni Spadolini non raggiunse per un solo voto la Presidenza del Senato, e quel (contestato, poi conteggiato) voto era scritto così: “Scogna”, molto piccolo, e “Miglio”, molto grande – e c’era un Miglio tra i senatori, il valente politologo eletto con la Lega. In dodici anni di crisi della Prima Repubblica e di difficile transizione verso la Seconda, mentre il mondo intero cambiava, possibile che nessuno abbia pensato a regolamentare forma e dimensione dei caratteri sulle schede, a stabilire come regolarsi con nomi, cognomi e patronimici, lasciando così la quindicesima legislatura nel più grave imbarazzo? Possibile che nessuno si ricordasse del Concilio di Nicea tenutosi nel 325 d.C., quando i seguaci di Ario proposero di aggiungere solo uno iota al dogma trinitario, mettendo omoiusios invece di omousios? I Padri conciliari per fortuna tennero duro, e la sostanza del Padre e del Figlio rimase “uguale” e non divenne “simile”. Pensate ora cosa sarebbe successo se qualcuno avesse votato in tutta fretta per Franc Marini, o per Franco Marin, con una “o” oppure con una “i” in meno, o addirittura per il “Lupo Marsicano”!
Ma soprattutto: sono state previste precise disposizioni sui puntini in dotazione ai rispettivi cognomi? Già Hegel, non un filosofo qualunque, nei Lineamenti di Filosofia del Diritto diceva che in regime costituzionale al monarca è demandato solo il compito di mettere il puntino sulle “i” per rendere esecutiva una disposizione di legge: non sapeva però che la sua metafora andava presa secondo la lettera più stretta! E nel paese in cui le leggi si contano a centinaia di migliaia, è mai possibile che il Regolamento del Senato consti di soli 167 articoli, e che all’articolo 4 sull’elezione del Presidente, non dica nulla sulle schede, sull’inchiostro, sullo spessore della carta?
Qualcuno in verità, sabato mattina, s’è accorto che le istituzioni della Repubblica rischiavano di essere travolte dal ridicolo. Il Presidente Emerito Francesco Cossiga ha così proposto (“un’idea m’è venuta”, leggo dalle cronache) di integrare con un patto tra gentiluomini il lacunoso regolamento del Senato, fornendo alcune istruzioni circa l’eventuale uso di abbreviativi e nomignoli. Non sospettava, il Presidente Emerito, che lungi dal mettere fine al ridicolo una simile proposta vi apparteneva di diritto.
Perché è ridicolo voler regolamentare tutto. Di più: è impossibile. Qualcuno penserà nella sedicesima legislatura ad andare a capo con o senza trattino, e le istruzioni approvate in questa quindicesima dall’Aula riusciranno un’altra volta manchevoli. In realtà, Ludwig Wittgenstein ci ha scritto un libro, sopra questa assurda pretesa di limitare perfettamente in base a regole l’uso di una parola o l’applicazione di un concetto. Prendiamo il tennis, che è un gioco e ha delle regole: si gioca benissimo, anche se nessuno ha mai pensato di fissare l’altezza massima del lob o di proibire l’uso delle fascette ai polsi. Analogamente, ci intendiamo in genere sul significato di una parola o sul campo di applicazione di un concetto, anche se nessun insieme di regole lo delimita esattamente.
Il fatto è che non ci intendiamo semplicemente in grazia di regole e istruzioni formali che governino in maniera esplicita parole e concetti. Una parte del lavoro la fanno certamente dizionari e grammatiche, ma un’altra parte la fa quella che il filosofo austriaco chiamava la “forma di vita”. E voleva dire: un certo numero di cose fatte insieme, uno sfondo materiale di vita in comune, e un po’ di buona volontà. In mancanza di ciò, per ogni regola si porrà il problema di cosa significhi seguirla, e si cadrà in un regresso infinito ogniqualvolta si domanderà una regola per l’applicazione della regola.
In effetti, esiste una tendenza a dire che ogni agire secondo una regola è in realtà un’interpretazione, scriveva ancora Wittgenstein. Perniciosa tendenza, s’affrettava ad aggiungere, seguendo la quale viene ovviamente vanificato ogni richiamo alle regole. Ma è evidente che non è moltiplicando le regole che a una simile tendenza si pone fine, bensì costruendo politicamente le condizioni di quell’agire, per mettersi in condizioni di giustificare un certo modo di seguire la regola dicendo semplicemente: «Ecco, agisco proprio così».
Quando ho esaurito le giustificazioni, si legge ancora nelle Ricerche filosofiche, arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega. Ma c’è qualcuno oggi in grado di posare la vanga e mettersi a costruire sulla roccia, senza accampare sempre nuove giustificazioni? Le causidiche esasperazioni formali sono forse un dazio che bisogna pagare al risicatissimo risultato elettorale. Paghiamolo pure, ma la politica è un’altra cosa. E speriamo che le prossime scelte istituzionali e di governo lo possano dimostrare.