Con la pubblicazione nei paperback della seconda edizione de La fine della storia e l’ultimo uomo, uno dei libri più discussi degli ultimi dieci anni, Francis Fukuyama ha deciso di tornare sull’argomento, per spiegarsi. Sono stato attaccato da ogni immaginabile punto di vista, scrive, e s’è fatta ironia a buon mercato. Non crederete mica che io pensassi che gli orologi si sarebbero di colpo arrestati: la mia idea non era così strampalata. E soprattutto, non è mica uscita dal mio cappello: l’ha tirata fuori Hegel, e l’ha fatta sua Marx. Solo che per Marx la storia finisce con il comunismo e la società senza classi, e per me, che sono à la page (e per Kojève, da cui ho attinto a piene mani) finisce invece con la democrazia liberale.
Ora, è vero o no che i principi liberal-democratici, benché siano nati in Occidente, hanno tuttavia portata universale, ed è vero o no che la storia si sviluppa nel senso della progressiva adozione di quei principi? Lo so bene che vi sono vaste aree del mondo che non li hanno ancora adottati, e che si può ipotizzare che non sarà incruento il cammino che bisognerà fare perché quei principi valgano effettivamente per l’intera popolazione del pianeta. Ma mentre Samuel Huntington pensa che il solo fatto che quei principi siano nati da questa parte del mondo li priva di validità universale, io, Fukuyama, penso che ciò non sia vero affatto. Prendete la geometria: pure la geometria è nata in occidente, ma le proprietà del quadrilatero regolare sono le stesse qui, e ovunque nel mondo. La loro origine empirica non compromette minimamente la necessaria universalità. Io non credo, continua il pensatore, a una forma di rigido determinismo storico, ma una logica dell’evoluzione storica c’è, e questa va da meno democrazia a più democrazia. In attesa che ci vada definitivamente, porto come prova il desiderio pressoché universale di quelli che non vivono in democrazia di viverci una buona volta, e domando se sia possibile immaginare per la lotta politica un fine storico diverso.
D’accordo, ci sono dei problemi, e questi sono: l’Islam, il diritto internazionale, l’autonomia della politica, il progresso tecnologico. Ma, sul primo, noto che esistono paesi democratici a maggioranza musulmana e so che l’islamismo radicale che alimenta il terrorismo è figlio di un’ideologia politica, non di una religione. Dunque, non c’è ragione per escludere che la fine della storia sia anche per quella fetta di mondo la liberal-democrazia (senza dire del tempo che ci ha messo il cristianesimo per farli propri, quei principi). Quanto al secondo, vedo bene che ci sono differenze fra la concezione dell’ordine internazionale di americani ed europei, credo pure che alla sovranità dello stato nazionale non si possa facilmente rinunciare, ma un ordine mondiale liberale basato su una diversità di istituzioni internazionali a base democratica può essere realizzato ed è anzi effettivamente in procinto di esserlo. Sul terzo. Non so mica bene come procedano sviluppo economico e sviluppo politico, e poi ogni paese si traccia la propria strada. Il mondo sviluppato ha una propria agenda di problemi, il mondo in via di sviluppo un’altra. Io, Fukuyama (è sempre lui che spiega) non sono un determinista, non sono un futurologo: non so come andrà a finire. So che le minacce all’ordine politico mondiale vengono oggi non da Stati forti, ma da paesi con un forte deficit di statualità, tipo Somalia o Afghanistan. Una teoria che prenda in considerazione tutti i fattori da cui dipende l’evoluzione politica io però non ce l’ho. Quarto e ultimo punto, la tecnologia. Qui devo dire che la fine può venire anche da un’ecatombe nucleare, o da un disastro climatico, ma io mi preoccupo di più dell’impatto dell’ingegneria genetica sulle nostre vite. Il controllo del genoma umano, le droghe sintetiche, lo sviluppo delle neuroscienze, sono tutti fenomeni che potrebbero cambiare radicalmente la vita, e richiedere nuove forme della politica. Sulla plausibilità degli scenari che si disegnano su questo fronte non so dir nulla: ci sono rischi e ci sono opportunità. L’avvenire è aperto e la qualità delle democrazie liberali del futuro dipenderà in larga misura dalle nostre scelte, ma di più non so.
Bene: Fukuyama s’è spiegato. Uno legge e rilegge e si domanda soltanto: ma è possibile? Non dico la fine della storia, ma che uno scriva un libro così e ci torni sopra a distanza di più di dieci anni per dire che a pensarci bene non ne sa mica molto, che non tocca a lui far predizioni, che tutto può essere. Che sì la storia del mondo va a parare dalle parti della liberal-democrazia, ma solo se non esplodono improvvisi bubboni. E su questa eventuale esplosione lui non ci vede chiaro. Non ha una teoria, non sa se e come potrebbe succedere. Ma allora, di grazia, in cosa la scienza politica di Francis Fukuyama si differenzia dal comune buon senso? Avrete visto: ne spande a pene mani. Anche quando tocca nodi teorici che alla filosofia del ‘900 hanno fatto tremare le vene e i polsi, tipo l’empirico e il trascendentale, come l’origine empirica (della scienza, ad esempio) si trascendentalizzi, lui mette l’esempio e chiosa con un semplice “io credo”, “io penso”; e finisce là.
Poi però viene un dubbio: ma vuoi vedere che in America e nel mondo siamo un po’ a corto persino di buon senso? Non occorrono studi approfonditi, basta non essere Calderoli per supporre ad esempio che non c’è identità stretta fra l’Islam e i Fratelli Musulmani o al-Quaida, però se lo dice Fukuyama i neo-con saltano dalla sedia, e la cosa fa notizia. Così come fa notizia, pensate un po’, che inevitabilmente i processi di sviluppo di un paese devono muovere dalla popolazione di quel paese, e non possono essere “fatti” dall’esterno. Beh, che dire? Non è una buona notizia che il buon senso faccia notizia, ma per questa volta ci accontenteremo.