Caro Direttore, mi chiedi di scrivere, stavolta. Mi chiedi di rompere l’abitudine di telefonarti a notte fonda, di mettere una buona volta le mie obiezioni per iscritto e lasciarti dormire in pace. Mi chiedi di rompere il silenzio che negli ultimi dieci minuti mi sono imposta sull’argomento D’Alema-al-Quirinale. Mi chiedi di sostenerne la candidatura, e io mi chiedo se tu sia impazzito. In pochi – lucidi analisti politici con a cuore i destini del paese – abbiamo compreso il rischio dell’eventualità di un D’Alema presidente della repubblica. Di primo acchito, oltre a me stessa, mi vengono in mente solo Lorenzo Cesa e Aldo Cazzullo. E’ evidente a tutti noi – statisti come Cesa, liberi pensatori come Cazzullo, sincere democratiche come me – che D’Alema al Quirinale sarebbe una disgrazia per il paese ma soprattutto per D’Alema stesso.
E’ per questo che non ce lo vogliamo, cosa credete? Perché siamo il paese che vuole bene. Che vuole bene a D’Alema, ma anche al paese stesso. Che ci tiene. Che pensa alle lunghe serate d’inverno. Pensalo, D’Alema al Quirinale. Che fa gli origami con Gifuni mentre, al Palatino e in via Teulada, i talk-show si riempiono di ospiti inadeguati. Se non sai cosa sia la recessione morale, raffigurati la devastante immagine: sette anni di Porta a Porta senza D’Alema. C’è sempre Tremonti, mi dirai tu – ma, nello strato della tua anima più profondo e sinceramente interessato ai destini dei tuoi concittadini, sai che non è la stessa cosa. Che Tremonti da solo non funziona, gli serve D’Alema nella sua naturale collocazione istituzionale – i talk show – almeno quanto serve al paese. La spinta propulsiva di D’Alema nel ruolo istituzionale di fustigatore degli interlocutori è superiore a quella di Tremonti per questioni di formazione. D’Alema ha introiettato fin da piccolo la (fondata) convinzione di essere il migliore. Tremonti, invece, ha mirabilmente sintetizzato l’altra sera la fatica di fare il superiore senza sentircisi davvero, il disagio di ritrovarsi tra i piedi una palla da servire senza avere lì un D’Alema che calci in porta. Una fatica e un disagio che – saprebbe spiegarti Crepet, ma in sua assenza te lo spiego io – hanno radici nell’infanzia: “Mio padre mi comprava gli sci se mi iscrivevo alla gioventù liberale”. E’ stato quella sera, durante quella puntata di Matrix, che i cittadini davvero coscienziosi hanno capito che i gemelli del gol non si possono dividere, che D’Alema non può e non deve andare al Quirinale, lasciando lì solo Tremonti, senza nessuno a chiosare: “Un’infanzia difficile, diciamo”.
I palinsesti invernali, senza D’Alema, sarebbero come Via Col Vento senza Scarlett, come Beautiful senza Ridge, come Sanremo senza Pippo Baudo: ci si illude siano costruzioni solide, ma senza quel pilastro crollano. D’Alema non può farlo, non può lasciarselo fare. Il paese non può permettersi un D’Alema snaturato. Avrebbe un impatto devastante sugli umori dell’elettorato vero e profondo: quello del televoto. D’Alema al Quirinale rischia di riportarci ai giorni bui in cui Fiorello era ingabbiato nelle rigidità di format di “Non dimenticate lo spazzolino da denti”: cosa fai scendere a fare il migliore in campo se poi non lo lasci esprimere in tutta la gamma delle sue più esaltanti possibilità? E’ chiaro che a quel punto lo share crolla, e quindi minori investimenti pubblicitari, paese depresso, recessione… Voi non avete idea di quel che desiderate, quando vi augurate un D’Alema al Quirinale.
Sì, i più ottimisti dicono che ammodernerebbe il ruolo, che porterebbe nell’istituzione la hubris che noi amiamo, ma io non voglio correre il rischio. E se poi non è così? Se smette di insultare i giornalisti? Se abolisce quegli sprezzanti “francamente”? Se visitando le 103 province in cui – come ci ricordava l’altra sera su La7 il lucido Cazzullo – nel 1999 Ciampi era già la personalità più amata e le sue finanziarie erano il più affettuoso argomento di conversazione dei vecchietti nei bar e quello sì che era un presidente-Scavolini, amato dagli italiani, ecco, se visitando quelle province D’Alema si sdalemizza? Se non gli scappa neanche un “diciamo” piccinopicciò, ma al massimo gli si leva un alto monito? Non si può fare. La dedalemizzazione di D’Alema è un abisso che il paese non può permettersi di guardare.
Quindi ti saluto, e ti prego di non cercare più di coinvolgermi in questa campagna autolesionista. Quello che avevo da dire l’ho detto, per ulteriori approfondimenti rivolgiti a Cesa. Io non voglio essere disturbata: devo prepararmi spiritualmente al prossimo discorso di fine anno. “Care italiane, diciamo, e cari italiani. Francamente, leggere i giornali è un compito sempre più gravoso…”.