Tutte le guerre per il Quirinale della storia della Repubblica si sono combattute sottacqua. Bisogna andare al fondo, laddove la luce filtra sempre più debolmente, per capirci qualcosa. Ma a capirci qualcosa aiuta anche il caso, che ha voluto far seguire a così breve distanza l’elezione del capo della Chiesa da quella del capo dello Stato. La seduta comune delle Camere è in effetti, come è stato notato, il Conclave della Repubblica. Non a caso anche nei mezzi di informazione vige una rigidissima distinzione tra chi si occupa del Quirinale o del Vaticano e gli altri giornalisti. Quirinalisti e vaticanisti scrivono sottacqua: i loro movimenti sono rallentati, per poterli cogliere nel loro autentico significato bisogna immergersi con loro, riconoscere i fondali su cui si muovono come pesci silenziosi.
Alla vigilia del primo, solenne dibattito tra i due candidati alla presidenza del Consiglio, un grande giornale pubblicò due ampie pagine in cui non mancava l’informazione sul tipo di mutande da loro indossate, chi i boxer e chi gli slip. Durante il Conclave che ha eletto Ratzinger, nelle molte pagine dedicate ai cardinali papabili, nessuno si è sognato di stilare simili elenchi. Le vicende che ruotano attorno al Quirinale godono dello stesso religioso rispetto riservato alle questioni vaticane. Le vicende che ruotano attorno al parlamento e ai partiti, no.
La candidatura di Massimo D’Alema alla presidenza della Repubblica, avanzata pubblicamente ben prima dell’inizio delle votazioni, era destinata a sollevare molte perplessità non solo per il nome, la storia e il profilo del candidato, ma innanzi tutto per il metodo. Se quella per il Quirinale fosse davvero una guerra – e spesso lo è stata – si potrebbe dire che D’Alema abbia inaugurato una nuova dottrina, una sorta di preemptive strike quirinalizio, che sta all’antica tradizione delle manovre subacquee come la dottrina Bush sta al vecchio realismo kissingeriano. Sinceramente – e con tutto il rispetto per la candidatura di Giorgio Napolitano avanzata nella notte di domenica – continuiamo a sperare che la dottrina dalemiana abbia miglior fortuna di quella americana. Perché in questo mutamento di paradigma c’è un elemento che va oltre le sciocche tiritere sulla metodologia.
Quando sul Corriere della sera Galli della Loggia scrive a proposito di D’Alema: “Ottimo candidato, pessima candidatura”, ci sembra colga – forse inconsapevolmente – proprio questo elemento. Sostanza, non metodo. La fine di un’era: il ritorno della politica, non solo attraverso un candidato politico, ma innanzi tutto attraverso una candidatura politica. Quale che ne sia l’esito, il sentiero è tracciato, il tabù è stato infranto. Qualcuno forse se ne dorrà. Noi invece ne siamo lieti. Ma soprattutto dovrebbero esserne lieti, crediamo, i parlamentari che da oggi si apprestano a eleggere il successore di Ciampi: forse il tempo in cui brillanti giornalisti li dividevano in squadre secondo foggia e modelli delle loro mutande sta per finire.
Le parole di Piero Fassino nella sua intervista al Foglio, giustamente intitolata: “La guerra è finita. O no?”, confermano questa lettura. Non si tratta di un gioco di equilibri dentro il governo, la coalizione o i partiti. Si tratta di un’operazione politica. Berlusconi ora può scegliere se guidarla o subirla. Il rischio è quello evidenziato da Giuliano Ferrara: non le rappresaglie, sulle sue proprietà o sui suoi problemi giudiziari, che non ci sarebbero in nessun caso; ma l’irrilevanza politica.
Sarebbe ben strano, però, che il Cavaliere si ritraesse dinanzi a una simile occasione. A suo modo – un modo che a noi non è mai piaciuto, sia chiaro, intriso com’è di venature populiste, plebiscitarie, demagogiche – Berlusconi è stato sin dall’inizio uno dei principali protagonisti della rivoluzione politica e istituzionale seguita alla crisi del ’92. E’ stato a lungo il campione del bipolarismo, tra i maggiori artefici della democrazia dell’alternanza e della cultura del maggioritario. Non importa qui giudicare se tutto questo abbia fatto inconsapevolmente, guidato dalla mano invisibile del proprio interesse e se poi – quando il suo interesse immediato glielo ha consigliato – non abbia provveduto a distruggere o rinnegare gran parte di quei risultati. Silvio Berlusconi non può non essere consapevole di quanto la fine delle discordie civili seguite al collasso del sistema politico del ’92 sia anche, se non soprattutto, nel suo interesse. Questa è insieme l’occasione storica e la grande operazione politica annunciata al Foglio da Piero Fassino, partendo da quella che è una via di mezzo tra una constatazione e un auspicio: la guerra è finita. Dietro la collina, oramai, non c’è più nessuno. E se i bambini piangono e a dormire non ci vogliono andare, come cantava De Gregori, pazienza. Qualcuno li consolerà.