Il problema non è Damiano Cunego in sé. Diciamolo subito per chiarire ogni possibile equivoco: Cunego è un bel ciclista. Veloce. Tenace. Coraggioso. Spavaldo, persino. Credo che quando si ritirerà dalle competizioni, tra dieci anni almeno dal momento che è ancora un ragazzino, potrà vantare un palmares di tutto rispetto, composto perlopiù di classiche e non di grandi giri. Il calendario internazionale del ciclismo è composto da tante corse, e Cunego saprà certamente ritagliarsi, se riuscirà ad amministrarsi in modo assennato, un ruolo di primo piano. Insomma, bravo Cunego.
Ecco, ci siamo tolti il pensiero. Adesso veniamo al punto: Damiano Cunego è l’incarnazione ciclistica del millantato credito, di una tipologia umana un po’ fanfarona, di quello stile di vita che è ben riassunto dal detto partenopeo secondo il quale chi si sia fatto, in un modo o nell’altro, una buona nomea può pisciare a letto e poi dire di aver sudato.
Damiano Cunego è, per dirla altrimenti, l’arcitaliano. È il correlativo oggettivo su due ruote di quell’idea che la maggioranza degli italiani sembra avere di se stessa: ci consideriamo furbi, talentuosi, antropologicamente superiori, baciati da una grazia alla quale – sorprendentemente, per gente che dovrebbe essere venuta su nella Weltanschauung cattolica – non riteniamo necessario far corrispondere una risposta fatta di impegno, di dedizione, di studio, di fatica e sudore, di merito e operosità. Pensiamo perlopiù di vivere nel più bel posto del mondo, di mangiare il cibo più buono e sano, di godere del clima migliore, di essere simpatici, irresistibili e “brava gente”, di vestirci con un’eleganza innata, di aver fatto la storia della cultura grazie a un’infornata di formidabili geni ai quali ci sentiamo legati come fossero nostri parenti stretti, insomma riteniamo di essere i migliori un po’ in tutti i campi (è diventato pure uno slogan di successo: “Italians do it better”) per naturale predisposizione d’animo. Al sorriso sereno di chi sa di avere fatto il proprio dovere preferiamo il riso sardonico di chi ritiene di saperla lunga anche contro ogni evidenza contraria. Tendiamo ad autoassolvere ogni nostro peccato e a trattare con ironica sufficienza chi, per noi inspiegabilmente, non ci degna di analoga considerazione.
Parlavo proprio ieri con un amico che, nei giorni scorsi, è stato per lavoro in Germania. Mi diceva una cosa che più e più volte ho pensato anch’io: i tedeschi, proprio quei tedeschi che amiamo sfottere per i loro calzini bianchi portati con i sandali sotto i bermuda beige e per la loro gastronomia apparentemente grossolana, sono stati capaci di rendere le loro città incredibilmente belle e accoglienti. Pulite. Ordinate. Verdi. Con servizi ragionevolmente efficienti che fanno vivere meglio, con meno problemi. Alla faccia della retorica del paese del sole, in cui il sole stesso spesso fa fermentare i cassonetti d’immondizia non svuotati. In cui viaggiare con treni e mezzi pubblici è più che altro un’impresa esasperante. In cui ogni opera pubblica, quando va bene, è realizzata a prezzo di sprechi, inefficienze, costi elevatissimi, tempi biblici. Il rischio è che, alla fin fine, quando non siamo ottenebrati dall’ideologia arcitaliana siamo costretti a riconoscere che esistono molti posti che sì, sono più belli dell’Italia. E, quel che forse è più grave, si meritano di esserlo.
Torniamo a Cunego. Il ragazzino vinse, due anni fa, un Giro d’Italia. Venne salutato dai più (e parlo anche e soprattutto di gente che di ciclismo dovrebbe capirne) come una sorta di redivivo Coppi. Nessun commentatore ha mai fatto notare che, per quanto una vittoria sia una vittoria e buon per Cunego, quel Giro lo vinse essenzialmente perché non aveva avversari degni di questo nome (se non un Simoni già in fase calante, che però era nella sua stessa squadra, e fu quindi impossibilitato a inseguirlo, come forse avrebbe potuto fare, nella fuga decisiva) e perché si corse su un percorso da dilettanti (i “tapponi” di montagna erano lunghi poco più di cento chilometri ciascuno). Il grande ciclismo, o anche semplicemente il ciclismo vero, si correva altrove. Ribadisco: buon per Cunego, viva Cunego. Che altro avrebbe dovuto fare se non cogliere al volo l’occasione e vincere? Il problema, semmai, è l’esegesi che ne è derivata.
Da allora, infatti, contro ogni logica, ciclistica e non, Cunego è divenuto “Il piccolo Principe”, e non è bastata un’annata deludente come la scorsa a ridimensionare aspettative e considerazione: quest’anno è stato salutato come il grande rivale di Ivan Basso per la vittoria nella corsa rosa. Senza che nessuno considerasse come Basso, l’antitaliano, sia un ciclista che ha costruito la sua carriera con meticolosa applicazione facendo una gavetta pazzesca al Tour (il grande ciclismo, il ciclismo vero) dove ha già raccolto due podi in due anni correndo con umiltà e tigna; programmando la preparazione al Giro senza lasciare nulla all’italianissima arte dell’improvvisazione; lavorando come un matto sul gesto tecnico della cronometro e sull’andatura in salita, fino a ottenere esiti micidiali per gli avversari; potenziando il proprio “motore” e, al contempo, controllando maniacalmente la propria struttura fisica fino a diventare una macchina per produrre velocità. Per lui, fino ad oggi, niente peana. Niente complimenti dall’esagitato Sgarbozza. Niente nomignoli suggestivi. Solo tanto, tanto lavoro e anche un po’ di sfiga, senza la quale avrebbe già vinto il Giro dell’anno scorso.
Risultato: quest’anno, a due terzi di percorso sulle strade italiane, Basso ha un vantaggio su Cunego (e su qualunque altro concorrente) costruito sia in salita che a cronometro e misurabile con la sveglia della nonna. Al netto dell’imponderabile (una colica intestinale come quella che l’anno scorso lo tolse dai giochi per la vittoria finale, o un’irruzione dei Nas che falsifichi alla radice quest’intero articolo, o un incidente di qualche tipo) si avvia ad attaccare il primo Tour dell’era post-Armstrong con il ruolo di favorito e un Giro vinto alle spalle. E questa sua vittoria nobiliterebbe il Giro più di quanto il Giro vinto nobiliterebbe la sua carriera ciclistica.
Nonostante ciò, il tono medio dei commenti degli addetti ai lavori è che “abbiamo fede in Cunego” e che “Cunego certamente si inventerà qualcosa in salita” e che “Cunego sicuramente attaccherà”. Settimana scorsa, addirittura, su un quotidiano nazionale un opinionista s’è spinto a scrivere che Cunego incarna la fantasia tirannicida e rivoluzionaria (sempre per via del fatto che due anni fa vinse “attaccando” il suo capitano Simoni), mentre Basso sarebbe il crudele e noioso despota che vince perché mette davanti la squadra a tirare. E concludeva: “A voi la scelta di chi tifare”.
Viene da concludere che ogni paese tifa per i ciclisti che si merita. O anche: se l’Italia fosse un paese normale, sarebbe abitato da tifosi di Ivan Basso.
P.S. La malinconica consapevolezza della dabbenaggine che regna sovrana nell’opinione pubblica della propria nazione può fruttare, al cronista esperto e disincantato, anche qualche vantaggio pratico. Io, per dire, ho già vinto diverse birre (a me la birra piace, in particolare le weiss tedesche, e vedete come tutto torna?) scommettendo con amici cuneghiani sui successi di Basso. Che volete che vi dica? Continuate così, fatevi del male.