Il Codice da Vinci? Lascio la parola allo scrittore Giuseppe Genna, a cui più d’uno deve avere chiesto: ma tu che scrivi thriller e ti occupi di complotti, che ne pensi? Già, che ne pensa? “Un manuale della finta cultura popolare d’élite, che già aveva sfracannato i coglioni agli intelligenti quando uscì il Pendolo di Foucault di Eco e che, mercé la giustificazione del consumo di massa, continua a stracciare gonadi da quando io ho coscienza di esistere”. Non si potrebbe dir meglio. E Dan Brown, l’autore? “La venefica incarnazione di quello che si fa i miliardi raccontando il Segreto con la cialtroneria di una Riza Psicoletteraria”. Per comprendere quest’ultimo riferimento, occorre ricordare che il Direttore di Riza Psicosomatica è Raffaele Morelli, lo psicoterapeuta che Ron Howard non ha scelto come protagonista del film (sarebbe stato perfetto, altro che Tom Hanks!) solo perché, come Barbara Berlusconi, non segue i programmi di Maurizio Costanzo. Infine, quanto al genere: il thriller? “Il thriller non è più un genere: è la zuppa Campbell della letteratura”. La zuppa in questione è quella che Andy Wahrol ha riprodotto già nel 1962 in 4 Campbell’s Soup Cans, e a proposito della quale, con finto tono profetico, Michel Foucault aveva scritto: “Verrà un giorno in cui l’immagine stessa col nome che porta sarà disidentificata dalla similitudine indefinitamente trasferita lungo una serie. Campbell, Campbell, Campbell, Campbell”. Foucault scrive difficile, ma vuole dire: che ne è più della pittura, come arte della mimesis, quando arriva un Andy Wahrol e si limita a sviluppare un motivo in immagini seriali che non hanno inizio né fine, quando cioè la ripetizione uccide la somiglianza?
Io devo parlare del Codice da Vinci e del film che ne hanno tratto, ma devo spiegare anzitutto questo, che la ripetizione uccide la somiglianza. Se siete un pittore, come potete dipingere più un paesaggio, quando vi sono macchine in grado di riprodurlo in tutte le fogge, i colori, le forme e le dimensioni possibili? Dove si rifugia l’artista? Per Magritte, l’opera d’arte si distingue ancora dall’universo visibile (e riproducibile) “per l’aggiunta di una virgola”. Per Wahrol, non ci sono più virgole, c’è solo la zuppa. Se invece siete uno scrittore, come potete più raccontare una storia, quando ormai si conoscono al grammo gli ingredienti di cui sono fatte le storie? Ma – si dice – i bestseller non si scrivono a tavolino. Vero, ma non perché non c’è una ricetta che funzioni. La ricetta c’è e funziona: con regolarità statistica. Prova ne è che, certo, nessuno può giurare, prima, che il tal libro venderà milioni di copie: ma tutti possono sapere, dopo, perché. Nel caso di un’opera d’arte, invece, si è sempre creduto che neppure dopo se ne possa venire a capo. L’opera conserva il suo segreto.
E così siamo al segreto. Che cosa c’è di più allettante che svelare un segreto? Una cosa c’è, ed è svelare un segreto che sia sotto gli occhi di tutti, come la lettera rubata di Poe. (Viceversa, ed è un viceversa importante: quando si svelano i segreti che sono sotto gli occhi di tutti, a tutto si può imputare di nascondere un segreto). Dan Brown ha scritto un libro in cui si svela il segreto custodito dalla Chiesa da millenni, segreto che ne dimostra l’impostura. Ma non è questo il punto. Pascal, il più disincantato degli scrittori cattolici, non diceva forse: se andate a pescare sul fondo di qualunque istituzione, ci troverete un abisso di violenza e usurpazione? È quel che già Montaigne chiamava, con ironia, il fondamento mistico dell’autorità. Ovviamente, Pascal esentava la Chiesa cattolica; Dan Brown no, e a ragion veduta: non vedo perché, a meno di non credere ai miracoli, la Chiesa dovrebbe fare eccezione. Poi ci sono i quadri di Leonardo, il non plus ultra della storia dell’arte: anche loro cedono mirabolanti segreti al professore che li guarda senza i pregiudizi consolidati della “storia ufficiale”. Infine, ci sono i cartoon: quando Robert Langdon, il protagonista, spiega di quali simbolismi siano carichi Biancaneve, La Bella addormentata o la Sirenetta, e come Disney amasse inserire nei suoi film allusioni nascoste al mito pagano e un “affascinante tessuto di simboli spirituali”, il cerchio si chiude – e il lettore è catturato. D’improvviso, l’evidenza balza agli occhi. Ma soprattutto: non è forse vero che è finalmente trovata nei cartoon la clef de voûte, la vera chiave di volta, e cioè il denominatore comune di arte e religione: non le immagini della verità ma la verità dell’immaginario?
Quel che allora mi pare sensato discutere non è l’enorme quantità di paccottiglia che sotto specie di esperto e nelle vesti di Robert Langdon, il protagonista, Dan Brown rifila agli appassionati e creduli lettori, non è se questo sia più verosimile di quest’altro, e quanto la spari grossa, ma: come dobbiamo comportarci con i segreti, in democrazia?
Non è, insomma, che la Chiesa sia messa a mal partito dal fatto che Dan Brown ne sveli i segreti, è che invece tutti noi non possiamo starcene in pace se non possiamo custodire il segreto che noi siamo dalla mania di interpretare, di simbolizzare, di commentare e di spiegare che Dan Brown coltiva, insieme a Raffaele Morelli e a molti altri. “Ho il gusto del segreto – diceva Derrida – ho un moto di timore o terrore davanti a uno spazio pubblico che non dia spazio al segreto. Per me, esigere che si metta tutto in piazza e che non ci sia foro interno, è già il farsi totalitaria della democrazia”.
Ed è anche, aggiungiamo noi, la fine dell’arte nella zuppa Campbell e della religione nei cartoon.