The Comeback

I used to be a crustacean / In an underwater nation… I feel the need / Planted in me / Millions of years ago / Can’t you see / The Ocean size?”. Il nastro si riavvolge, sosta per una frazione di secondo sull’inizio per poi ripartire. La musica è la stessa, forse no: vorrebbe, ma non può, essere uguale. L’evoluzione ricapitola se stessa ma procede in avanti, il futuro è il superamento del passato fino a quando non diviene passato esso stesso; qualcosa di cui tenere conto, di cui ricordarsi, da cui ripartire.
Da “Comeback”, “ritorno” a “Come Back”, “torna indietro”; da sostantivo a esortazione; da tentazione nostalgica a desiderio di ricominciare, questo gioco di parole annuncia e riassume il nuovo lavoro in studio dei Pearl Jam, dopo sei lunghi anni spesi tra interminabili tournée e concerti di beneficienza, tutti puntualmente documentati in una serie sterminata di live, ufficiali e non.
Che si tratti di un ritorno alle origini, lo dichiara la musica prima dei testi: è sufficiente l’attacco elettrico dell’iniziale “Life Wasted” per ritrovare i PJ più immediati, diretti ed energici; votati a un hard-rock schietto e corposo che non ha paura di recuperare gli stilemi del passato e di usarli per procedere oltre. Quello stile – meglio sarebbe parlare di attitudine – che in una determinata fase storica prese il nome di “grunge” e ambì a conseguire lo status di movimento. Laddove, invece, esistevano soltanto poche, talentuose, individualità: oltre ai PJ, i Mudhoney, i Nirvana e gli Alice In Chains. Dopo la scomparsa di Kurt Cobain e di Layne Staley, resistono solo il gruppo di Mark Arm e quello formato originariamente dal chitarrista Stone Gossard e dal bassista Jeff Ament (che con il più lisergico Mark diedero dapprima vita al “big bang” Green River) con l’allora carneade Eddie Vedder alla voce, il secondo chitarrista Mike McReady e il batterista Dave Krusen (posto occupato attualmente da Matt Cameron, ex-Soundgarden – a proposito di meteore dell’epoca).
Una scelta, una necessità oppure, più semplicemente, la cosa che al gruppo veniva di fare, qui e ora? Quello che convince e conquista in “Pearl Jam” (titolo omonimo, quasi si trattasse del primo album) è la spontaneità, la voglia di darci dentro, senza per questo abiurare alla ben nota accuratezza e pulizia di suono; e senza rinunciare, qui e là, a spezzare melodie e tempi o comporre surreali filastrocche. L’intero lavoro si mantiene su livelli di valore, raggiungendo l’eccellenza in almeno tre capitoli: la metafora evoluzionista “Big Wave”, citata all’inizio; l’introversa “Gone”; e il gioiellino “Inside Job”, una “Behind Blue Eyes” riletta dall’accoppiata Vedder/McReady. Il resto corre veloce e potente come un coast-to-coast da canestro a canestro, schiacciata inclusa: alternando riff precisi e trascinanti (“Life Wasted”, “World Wide Suicide”, Severed Hand”, tra gli altri) a momenti intimisti senza sdolcinature (“Gone” e “Come Back”); assoli che spremono note, watt e sudore; basso e batteria da manuale; e la voce di Vedder, impegnato qui a offrire il catalogo completo: roco, vellutato, sussurrato o sopra le righe, perfetto nell’interpretare liriche niente affatto classiche o meramente introspettive. Il tema del ritorno, dell’abbandono, del chiudere i conti con il passato (“make yourself a pact / not to shut doors on the past”, da “Inside Job”), con un presente incerto (“No more upset mornings / No more tired evenings / This American dream / I am disbelieving”, da “Gone”) e un futuro difficile da costruire (l’affresco realista di “Unemployable” e “Army Reserve”, la quasi-confessione “Life Wasted”, la tentazione di resa e fuga in “Gone” e “Comatose”) percorre l’intero lavoro, confermando questo gruppo tra i più sensibili interpreti degli umori, delle sensazioni e dei comportamenti di più di una generazione. Il cui identikit introverso, orgoglioso e offeso è pura filosofia rock: “Underneath this smile lies everything / All my hopes, anger, pride and shame… how I choose to feel… Is how I am”.