Tra le molte cose che è stato, il Novecento è stato anche il secolo del grande rinnovamento della teologia. Non è mutato solo il linguaggio dell’arte, o quello della letteratura, non è mutata soltanto la concettualità filosofica, o quella scientifica, anche la teologia ha conosciuto una stagione di grande fervore e di profondo ripensamento: sul versante protestante e su quello cattolico, ed anche su quello ebraico, il pensiero di Dio ha dovuto infatti reagire ai possenti scossoni del secolo. E al più forte di tutti, Auschwitz.
Per questo motivo, quando un Papa si reca nel luogo dove furono deportate e uccise più di un milione di persone, le sue parole risuonano in un silenzio sgomento. In quel silenzio sgomento, il Papa dice con voce rotta dall’emozione: “In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?”.
Sul silenzio e sulla presa di parola la filosofia ha molto da dire: gran parte del suo rinnovamento nel corso del Novecento si è giocato su questi temi. E Auschwitz non pone solo al Papa tedesco la terribile domanda se la parola della teologia non debba incrinarsi fino a spezzarsi sotto il peso di quell’intollerabile orrore: lo pone alla filosofia, che è anch’essa parte in causa, e lo pone all’arte, alla poesia, all’uomo. Il filosofo Adorno ebbe una volta a dire: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”. Si chiedeva Adorno se fosse ancora possibile la poesia, e se ancora fosse possibile umanità. Paul Celan, poeta rumeno di origine ebraica e di lingua tedesca, sopravvissuto allo sterminio e morto suicida nel 1970, tra i più grandi poeti del secolo, scrisse che con il silenzio le vittime del nazismo sarebbero state consegnate un’altra volta inermi ai loro carnefici.
Così, nel silenzio spettrale del campo, il Papa prende la parola e dice piano: “Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”.
Questa domanda è la domanda angosciosa dell’uomo. È la stessa domanda di Giobbe, dell’uomo giusto colpito dal male. Giobbe rinuncia alle facili giustificazioni con le quali gli amici cercano con animo insincero di mandare assolto Dio, e tiene fermo il suo grido di protesta, e con esso lo scandalo del male. Come non mandare lo stesso grido per le milioni di vittime, gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali, i prigionieri politici, i religiosi morti nei campi di concentramento.
Poi il Papa dice ancora: “Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia”.
Questa è la voce del credente, la preghiera sincera di chi si affida nelle mani del Padre. E tuttavia alla teologia e alla filosofia si può forse chiedere se davvero, dopo gli orrori di Auschwitz, si sbaglia chi non volesse tacere, ma volesse farsi giudice del silenzio di Dio. Si sbaglia? Io magari lo manderò assolto, chissà, magari vorrò prendermi gli insulti di coloro i quali saranno scandalizzati dal mio verdetto d’assoluzione, dalla mia pietà ingiusta, ma proprio non vedo perché dovrei, perché l’uomo, internato ad Auschwitz, sopravvissuto ad Auschwitz, dovrebbe rinunciare a giudicare il silenzio di Dio, l’assenza di Dio. Non vedo chi altri rimane da giudicare. Di giudicare gli uomini non importa più nulla. Sta anzi scritto, Matteo, 7,1: “Non giudicate, affinché non siate giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nel tuo occhio?”.
E dunque io non giudicherò gli uomini, per non essere giudicato. Ma giudicherò Dio, l’Onnipotente. Giudicherò la trave, a cospetto della quale ogni altra colpa è una pagliuzza. Perché infatti dovrei prendere la parola, dopo Auschwitz, se non per giudicare Dio? Cos’altro resta da fare? Cos’altro avevano da fare i sopravvissuti del campo, se non giudicare Dio, la trave nel suo occhio? (E Dio, cos’altro può fare, se non salire di nuovo sulla Croce?).
Certo, il Papa dice giustamente che non possiamo scrutare il disegno di Dio. Può darsi infatti che non possiamo perché non vi riusciamo; ma come può l’uomo rinunziare a giudicare, come Giobbe a cui Dio Onnipotente dice, nel mistero della sua rivelazione: chi sei tu per giudicare? Come può Dio rinfacciare ancora all’uomo di essere troppo piccolo per giudicare? Chi era nel campo, chi è sopravvissuto agli orrori del campo, non è forse sin troppo grande per giudicare? Deve forse crescere ancora? Cos’altro dovrebbe vedere, per essere grande?
Forse, ben lungi dal non poter giudicare, l’uomo che testimonia l’orrore del campo, e che ne scruta con dolore l’abisso, bisogna non solo che possa giudicare, ma che debba. Poiché questa e non minore è la nostra responsabilità, e l’irrecusabile testimonianza. Poiché questa, e non minore è la responsabilità della teologia, della filosofia, dell’uomo – non quella di confidare ancora in una sapienza immensa ma nascosta, mentre la follia nazista non nascosta ma patente, trionfante, infuriava ad Auschwitz.
Giudicare, dunque, si deve, se ancora vogliamo portare la responsabilità di essere uomini a cospetto di Dio. E forse giudicare si deve anche, se Dio vuole portare ancora su di sé il peso della sua Onnipotenza e tuttavia restare silenziosamente accanto all’uomo che ad Auschwitz morì.