Se Ivan Basso fosse un corridore normale questo sarebbe un articolo celebrativo del suo trionfo al Giro d’Italia. Siccome però Ivan Basso ha puntato direttamente al piatto grosso – vincere nello stesso anno Giro d’Italia e Tour de France – il varesino è soltanto a metà dell’opera, e prendendolo in parola noi contiamo di celebrarlo a Parigi.
A ciò si aggiunga che il suo strapotere è stato pari – o quasi – alla delusione di molti dei favoriti: Di Luca, Cunego, Savoldelli, capitani che in montagna sono andati più piano dei propri gregari, o di Simoni che, partito per vincere il Giro, ha chiuso lamentandosi di non aver ricevuto una tappa in regalo. Il Tour, sappiatelo, è un’altra cosa e sulle strade francesi Basso troverà avversari di tutt’altra caratura. Troverà Jan Ullrich, per esempio.
Se Damiano Cunego, come ha scritto Marco Beccaria la settimana scorsa, è l’arcitaliano del ciclismo, Ullrich è certamente l’antitedesco. Per nulla metodico negli allenamenti, per nulla lucido e razionale in corsa, ma dotato di mezzi fisici eccezionali. Uno che arrivò secondo al suo primo Tour de France, alle spalle di un suo compagno di squadra, quel Bjarne Rijs che, passato a direttore sportivo, è oggi tra i principali artefici dell’exploit di Ivan Basso. A detta di molti, quel Tour Ullrich l’avrebbe vinto con una gamba sola, ma dovette correre col freno tirato per ordini di scuderia. Aspettò, e l’anno dopo, a ventitre anni, vinse a mani basse.
Era il 1997 e Jan Ullrich sembrava un predestinato, uno di quelli che arrivano e segnano un’epoca: i giornali lo chiamarono subito il kaiser. Sulla sua strada però arrivarono prima Pantani e poi Armstrong, due che quando correvano in bicicletta non erano di questo pianeta; la fulgida carriera che gli si prospettava davanti diventò una sfilza micidiale di secondi posti; la superiorità di Lance Armstrong, la sua feroce determinazione, la sua meticolosità nel preparare le corse accentuarono i difetti del tedesco. Ullrich si perse un po’ per strada, una squalifica per anfetamine, notti in discoteca, non proprio la vita da monaco che il ciclismo impone. Ogni inverno ingrassava a dismisura e sulle salite faceva sempre più fatica. Ciononostante era comunque lì, appena un gradino sotto ai migliori. Ma gli anni passavano e lui continuava ad arrivare secondo; la sua carriera sembrava doversi spegnersi lentamente con la malinconia di una promessa non mantenuta.
Poi, alcune settimane fa, la svolta: da un giornale danese Bjarne Rijs lancia un attacco all’ex compagno di squadra: “E’ grasso, non si allena, non gli piace più andare in bicicletta, dovrebbe smettere di correre”. Ullrich ci rimane malissimo, tira fuori quell’orgoglio che sembrava non possedere affatto; dal giorno dopo comincia ad allenarsi come un matto; si presenta al Giro ancora visibilmente sovrappeso, senza un filo di abbronzatura su gambe e braccia, chiaro segno dello scarso allenamento; ma si presenta motivato come non lo si vedeva dai tempi d’oro. Corre il Giro d’Italia come se fosse un’interminabile allenamento in vista del Tour de France. In corsa, mentre gli altri arrancano sulle salite cercando il rapporto più leggero per attenuare lo sforzo, lui sale con il rapporto più duro per aumentarlo. In pianura si fa sfilare dal gruppo per poter inseguire, da solo, a tutta, e trarre il massimo dell’allenamento anche nelle tappe di trasferimento; tappa dopo tappa ritrova la pedalata dei giorni migliori, zitto zitto vince la cronometro e rifila mezzo minuto a Basso. Infine, alla vigilia della tappa più dura un tempestivo mal di schiena gli dà il pretesto per tornare a casa e proseguire la preparazione. Eccolo il Giro di Jan Ullrich: un perfetto allenamento programmato, una dichiarazione d’intenti che farebbe bene a preoccupare il nostro Ivan Basso.
E se il tedesco saprà dargli filo da torcere, parte della responsabilità sarà stata di Bjarne Rijs. L’uomo che ha trasformato Basso in un campione rischia di essere insieme l’artefice della rinascita del suo maggior rivale. Ecco perché aspettiamo a celebrare Ivan Basso.