Il filologo del rock

Rilassato, sicuro di sé e del suo talento, lontanissimo da qualsivoglia cliché da rockstar. Questo è Bruce Springsteen, così com’è apparso anche di recente nella serie televisiva “Storytellers” dove, solitario sul palco ma circondato dal pubblico, fa ciò che gli riesce meglio, ciò per cui è “born to”. Insegna rock.
L’uomo che l’intero pianeta riconosce con l’appellativo di “Boss” incarna questa musica e quanto di meglio può offrire. Da solo oppure, come preferisce, alla guida della E Street Band o di altri gruppi, Springsteen conferisce alla musica con la travolgente forza della semplicità quello spessore, quella genialità sorridente, quell’universalità di linguaggio che permette di assentire con la testa, pronunciando le parole “arte” e “cultura”.
Quando poi, dopo avere offerto un saggio d’immersione nelle radici folk, country e blues come nel recente “Devil And Dust” (asciutto e dannato come il titolo) raddoppia la dose, alzando il tiro con “The Seeger Session” (raccolta di cover del grande folksinger Pete Seeger) ecco che – al di là delle sue stesse intenzioni – Springsteen assume una caratura di singolare storico, quasi un filologo del rock. E non perché l’anagrafe cominci a segnare il tempo della maturità o perché il medesimo status sia raggiunto nell’espressione musicale (non in un artista che continua a dimostrare un’adolescenzialmente sana voglia di cambiare, provare, mettersi in discussione).
E’ il percorso discografico a testimoniare della capacità e volontà di ricapitolare tutte le sfumature di un sound che è la sua vita. Rock, hard, blues, folk, soul, tutte le sfumature sono passate sulla tavolozza della sua chitarra; se il prossimo lavoro fosse “The Metal Session” (qualcuno ricorda l’originaria band del Boss, gli Steel Mill? Era hard-rock barocco, nella vena dei Vanilla Fudge) piuttosto che “Springsteen plays Dylan” non ci sarebbe nulla di cui stupirsi né da dubitare della sincerità e del valore del tentativo: in origine, recita questo profeta apocrifo, era il divertimento. E se si diverte lui, devono divertirsi tutti gli altri, come dimostra da ultimo “The Seeger Session”. Pur con tutto il rispetto possibile per l’originale, per il retroterra storico, politico e culturale di queste canzoni, il Boss dirige se stesso e la band in una partecipata, sostenuta e per niente retorica interpretazione, con tanto di annuncio delle parti musicali. Come si fa tra amici. E senza rinunciare a tenere lo sguardo puntato all’intorno, testimone consapevole e non di rado amaro (“The River” non è meno malinconica di “Jesus Was An Only Son”) di quello che ci passa per la testa e ci inacidisce lo stomaco. Tutto quello che si può curare con il sound giusto, reperibile sul Manuale Springsteen. Aprire a qualsiasi pagina.