L’ importante è mettersi d’accordo sulle aspettative. Chi rumina pallone sa che la coppa del mondo non è la rassegna delle squadre più forti del mondo. Al massimo, oggi, è la vetrina delle individualità tecniche e di pochi lampi collettivi. Non era così una volta, ma questo è il segno dei tempi, futile abbandonarsi ai rimpianti. Per chi non se ne fosse accorto, tutto è accaduto nella rivoluzione passiva degli anni ’80-’90. Fu allora che il neo-giacobino “eretismo podistico” (G. Brera) degli olandesi volanti, sublimi perdenti, venne assimilato in sistema di gioco, metodologia, organizzazione. Il resto lo fecero media e globalizzazione. Nello scenario neo-bonapartista della pedata globale, i grandi club sopravanzarono definitivamente i team nazionali. Real Madrid, Milan, Manchester United e altri club avevano presentato solo episodicamente, in passato, degli undici in grado di prevalere persino su quelli nazionali: ma ora il primato era stabile, garantito dall’evoluzione implacabile verso il gioco corto e l’internazionalizzazione del parco giocatori. Per contro, quale team nazionale è mai più assurto a paradigma del football mondiale dopo la grande Olanda di Johann Cruyff degli anni ‘70? Forse la volitiva ma modesta Germania dell’edizione italiana del ’90, una squadra di vecchie glorie? O l’effimera Francia che otto anni dopo si aggiudicò un’edizione casalinga dopo un secolo di batoste, solo grazie al fenomenale Zidane? E che dire dell’ultima Italia finalista, quella sacchiana del ’94: l’unico motivo per ricordarla non è forse l’epopea dei Baresi e dei Baggio, eroi sfortunati di un gruppo abborracciato e vanamente alla ricerca di un’organizzazione di gioco? Se ogni regola chiede un’eccezione, eccola: il Brasile, enigma avvolto nel mistero del gioco più bello del mondo, paese depredato dall’imperialismo calcistico europeo, eppure sempre capace di estrarre da un bacino sterminato football felpato e vincente (finalista delle ultime tre edizioni, trionfatore del ’94 e 2002). Ma appunto, la regola è un’altra.
Perciò parliamo di World Cup senza troppa enfasi. Però parliamone, facendo un primo bilancio che lasci agli incompetenti nozioni incongrue come lo “spettacolo”. Prima osservazione: le grandi scuole della tradizione (Europa e Sudamerica) continuano a dettare legge. Argentina e Germania sono passate ai quarti, si incontreranno in un match che potrebbe essere una finale. Potremmo essere smentiti, ma è probabile che passeranno anche Inghilterra, Olanda, Italia, Brasile (un’eventuale vittima tra queste non stravolgerebbe il quadro). La Francia (vincitrice di mondiale ma scuola minore) se la vedrà con la Spagna (priva di significativa tradizione nei mondiali), Svizzera e Ucraina chiudono il panorama: sempre di Europa si tratta.
Seconda osservazione. Le squadre che convincono sono quelle dotate di giocatori con precise caratteristiche, tali da ovviare all’inevitabile approssimazione dell’insieme (se comparato ai maggiori club). Nessuna appare senza pecche. L’Argentina per ora su tutte: l’unica a esibire un autentico regista a tutto campo (Riquelme) e molti giocatori in grado di saltare l’uomo (Maxi Rodriguez, Saviola, Teves e Messi, un talento sicuro), cui si aggiunge un centravanti di sicuro rendimento (Crespo). Gracile però nell’interdizione, ha sofferto moltissimo nell’ottavo contro il Messico. Non ha mai vinto un mondiale in Europa. Germania più modesta e senza stelle (Ballack non lo è), ma gioca in casa. Robusta e capace di sfruttare le fasce, concreta davanti con Pobolski e Klose. Ha messo sotto una squadra tosta come la Svezia (tradita dall’evanescente Ibrahimovic). Inghilterra sinora non molto convincente anche nei suoi migliori elementi (Gerrard, Lampard, Rooney). E comunque, ce li vedete gli inglesi vincenti in Germania? Olanda sempre maestra nel possesso palla, con un buon equilibrio tra tecnica individuale e disposizione sul campo. Manca però di personalità forti (Robben lo è in prospettiva) e ha il grave handicap di un attacco poco incisivo. Con il Portogallo di Deco e Figo, a sua volta capace di tenere palla, può avere problemi seri. Brasile così pessimo da non sembrare vero nelle prime due partite. Ma come sempre, più andrà avanti, più saranno dolori per tutti gli altri. Ronaldo in ripresa nella terza partita: ma resta la sgradevole impressione di vedere un fantasma vagante, anzi immobile, e per di più ingombrante. In ogni caso, la formula a due punte (Ronaldo-Adriano) non va: con una sola punta invece (o con l’inserimento di Robinho) si aprirebbero spazi strategici ai micidiali Ronaldinho e Kakà, entrambi candidati a stelle della World Cup. La Francia ha potenzialmente uno dei migliori reparti offensivi (Henry e Trezeguet) ma sinora ha deluso. Meglio la Spagna, specie a centrocampo con Fabregas e Iniesta.
Terza osservazione: tra le grandi che andranno avanti c’è sperabilmente anche l’Italia, favorita da un calendario benigno. Ma non dobbiamo illuderci troppo. Capita di frequente ascoltare lamentazioni sullo snaturamento del nostro football (non nascono più difensori, solo attaccanti ecc.). In realtà, il nostro undici è in linea con la tradizione. Portiere, difensori centrali, attaccanti tra i primi della competizione (sempre avuti). Centrocampo tecnicamente buono ma asfittico (come sopra). Il problema è un altro, come si diceva una volta. In quei ruoli, in passato, figuravano dei fuoriclasse. Oggi, se vogliamo essere onesti, non è così. La qualità complessiva non è elevata, e si vede. Giocare bene con il Ghana e male con gli Usa, in un turno eliminatorio, è la normalità. Ma quando abbiamo incontrato una squadra di fascia alta, la Repubblica Ceca (guidata da un fuoriclasse, Nedved), siamo stati dominati fino a che si è giocato in parità numerica. Ce la siamo cavata con il mestiere (goal su palla inattiva e raddoppio in contropiede nel finale). Migliore in campo, Buffon.
E’ difficile immaginare che questa squadra abbia potenzialità di crescita. Il reparto arretrato è l’unica certezza. Come sempre, ci manca invece l’attitudine a interdire senza riconsegnare palla agli avversari. Non è una questione di modulo (una o due punte, non si è vista differenza sostanziale). Il fatto è che la costruzione del gioco poggia tutta sulle spalle dell’ottimo Pirlo (ex atipico, come da tradizione). Troppo poco. Totti non incide, rientra da un infortunio, ma quando mai si è segnalato in una competizione internazionale? Gli attaccanti suscitano più perplessità che consensi. In panchina non siede nessuno che faccia la differenza (Del Piero può farla, ma all’incontrario). La vera speranza, che la sofferenza cui siamo comunque destinati (accadrà anche contro la mediocre Australia) esalti, come spesso è accaduto, il nostro storicamente intermittente spirito collettivo.
Ritornello degli ultimi giorni: abbiamo evitato il Brasile, meglio così. Quando non lo evitammo finì che si vinse il mondiale, era l’82: ma quella è un’altra storia.